Lunedì sera il colosso francese del lusso LVMH ha comunicato di aver comprato l’80% di Loro Piana per 2 miliardi di euro. I fratelli Sergio e Pier Luigi Loro Piana manterranno il 20% della società tessile. Dopo Bulgari, Fendi e Pucci (comprati da LVMH) e Brioni, Pomellato e Gucci (comprati da Kering-PPR) e dopo, sempre recentissimamente, l’acquisizione della storica pasticceria milanese Cova, un altro conosciutissimo marchio del lusso italiano, che genera l’85% del proprio fatturato fuori dall’Italia, passa in mano francese. Il prezzo pagato da LVMH è più che pieno a 21,5 volte il margine operativo lordo, confermando l’interesse dei mercati finanziari per un settore che sia dal punto di vista borsistico che da quello delle acquisizioni non conosce praticamente crisi o flessioni. La cessione, secondo i proprietari, o meglio ex proprietari, di Loro Piana rappresenta la scelta migliore per “sviluppare tutto il potenziale delle società”, “mantenendo l’identità e l’italianità dell’azienda”.
Prendendo per buone, e non c’è nessuna ragione per credere il contrario, le dichiarazioni dei fratelli Loro Piana, per cogliere tutte le opportunità di sviluppo della società non è più sufficiente rimanere da soli, ma occorre collocarsi all’interno di un gruppo molto più grande che per forza di cose può garantire sinergie e visibilità. Lvmh capitalizza quasi 70 miliardi di euro più di Eni e dieci volte Fiat; la società insieme a PPE (20 miliardi di capitalizzazione) è un multiplo di tutte le società del lusso italiane messe insieme e, ovviamente, è fondamentale per “far fare” sistema al “lusso francese” settore di punta, oltre che riconosciuto a livello mondiale, dell’economia transalpina.
Una società di queste dimensioni con un portafoglio di marchi così ampio e prestigioso può navigare serenamente le acque dei mercati globali, investendo nei paesi emergenti, sopperendo e resistendo a un eventuale calo di questo o quel mercato o marchio o settore. Finanziariamente non fa fatica a ottenere credito dalle banche e, infatti, può permettersi di pagare per cassa cifre piene senza risentirne troppo a livello patrimoniale, garantendosi una crescita di quantità e qualità e mettendo le proprie dimensioni al servizio delle esigenze di crescita delle neo-acquisite.
Ognuna delle storie e delle società italiane passate di mano è un capitolo a sè stante, in ogni caso ci saranno state valide ragione per la cessione (industriali, strategiche, di sviluppo e in alcuni casi anche “monetarie”), ma la conclusione è che oggi non esiste alcuna società quotata a Milano che per dimensioni possa neanche lontamente fare concorrenza ai francesi, mentre Prada ha scelto di quotarsi a Hong Kong.
Il lusso è uno dei pochissimi settori che in Italia non ha smesso di “tirare”, è un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale, dà lustro all’industria nostrana e dal punto di vista borsistico ha dato vita ad alcune delle pochissime storie di successo della borsa di Milano attraendo investitori e fondi; si va però in ordine sparso, mentre la testa di marchi notissimi del made in Italy è ormai a Parigi. Esiste una prateria ancora sterminata di marchi e società italiane che fanno sicuramente gola ai “cugini” francesi; società piccole per colossi di questo calibro e i cui nomi vengono regolarmente citati sugli organi di informazione: Armani, Cavalli, Dolce & Gabbana, ecc.
Può essere che il modello francese non sia necessariamente il migliore in assoluto, può essere anche che ce ne sia uno alternativo, magari più adatto all’Italia, con cui si possano raggiungere gli stessi scopi. A oggi, però, il lusso francese sta seguendo un modello che ha permesso la creazione di due colossi globali del lusso che stanno pian piano assorbendo gran parte dei marchi italiani offrendo visibilità, sinergie, sviluppo e soldi. Questo “modello” non si confronta con qualcosa di simile in Italia, niente di così sistematico e nemmeno con un percorso comune che consenta di fare sistema; con queste premesse non occorre un genio economico per capire come possa andare a finire e chi alla lunga ne uscirà vincitore e chi perdente.
L’ultima acquisizione ha suscitato reazioni di sconforto per un altro pezzo di industria italiana che se ne va e anche qualche panegirico di LVMH e del suo proprietario. I riflettori, però, si spegneranno presto e non si leggerà neanche un decimo di quanto scritto su Rcs-Corriere della Sera nonostante, scommettiamo, al di fuori dell’Italia il marchio del Corriere sia un po’ meno conosciuto di quello di Loro Piana e nonostante le performance economiche drammatiche della società editoriale.
È davvero impossibile non rilevare un’incongruenza tra il livello di scontro che c’è stato per mettere 400 milioni di euro nel Corriere, che ha visto per protagonisti imprenditori italiani di primo piano, anche del made in Italy, e l’acquisizione passata sotto silenzio fino a un secondo prima del comunicato stampa di Loro Piana. Tutto questo mentre il risparmio degli italiani fluisce abbondante nelle Società di gestione del risparmio. Se Rcs è così strategica e merita queste attenzioni, cosa bisognerebbe scrivere e quanto bisognerebbe riflettere sulla vicenda Loro Piana? Non è un peccato economico mortale farsi la guerra per un posto al sole nella società che “conta” e lasciare agli altri quelle che producono e vendono nel mondo con, oltretutto, un utile netto finale?
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