Questa per i mercati è la stagione delle trimestrali, delle stime degli analisti e dei risultati delle società che le battono o le disattendono; tra pochi giorni inizierà quella di Piazza Affari, ma negli Stati Uniti è già ampiamente in corso. Regine della “reporting season” sono le banche d’affari i cui profitti, in un certo senso, segnalano al mercato la salute del sistema finanziario. Le banche d’affari americane stanno presentando risultati eccezionali e ieri la mitica Goldman Sachs ha riportato un utile trimestrale per azione di quasi il 30% superiore alle stime degli analisti. Tra le varie osservazioni che si possono fare sui ricavi da investment banking piuttosto che su quelli da investment management se ne può sottolineare una abbastanza interessante.

Il compenso medio del dipendente di Goldman Sachs è pari a poco più di 430 mila dollari all’anno (contando il trimestre attuale più i tre precedenti – fonte: Zerohedge), ai massimi degli ultimi tre anni. Più che la somma in senso assoluto, che comunque non lascia del tutto indifferenti, a colpire è il nuovo massimo relativo; l’economia “reale”, in questo caso americana, non è certamente migliore di quella del secondo trimestre 2010. Il mistero non è particolarmente difficile da risolvere: complice una politica monetaria espansiva a opera della Fed, i rendimenti delle obbligazioni o i costi di finanziamento delle imprese sono scese ai minimi, il mercato azionario ha regalato notevolissime soddisfazioni e la liquidità scorre abbondante. Questo scenario pone le premesse per risultati floridi che alla fine si riflettono sui fortunati dipendenti.

Il Financial Times di ieri pubblicava un articolo con questo titolo “Wall Street è alle prese col problema di troppi profitti”. L’analisi contenuta nell’articolo merita una riflessione a parte, ma il punto decisivo è che l’immissione di liquidità che è stata necessaria per salvare l’economia americana preservandola dagli effetti più nefasti della crisi ha preservato anche la finanza e il suo mondo, come testimoniato dalle performance lusinghiere delle banche d’investimento americane. Non sono rimasti ormai molti dubbi su quale sia stata e continui a essere la ricetta migliore rispetto all’austerity euro-tedesca, ma la situazione in cui versa un terzo d’Europa, Italia inclusa, non dovrebbe lasciare molti dubbi in proposito. Il problema è che la finanza “lasciata da sola” non sembra avere di per sè la capacità di cambiare abbandonando i comportamenti e le pratiche che hanno condotto alla crisi.

Per rendere l’idea, prendiamo in prestito l’analisi dell’articolo di cui sopra. In estrema e rozza sintesi, l’analisi suona più o meno così: è vero che gli utili delle banche d’affari americane sono eccezionali, ma purtroppo questo eccesso di cassa non può finire agli azionisti, sotto forma di dividendi, e ai dipendenti, sotto forma di compensi e bonus, come sarebbe successo anni fa a causa di un inasprimento delle regole che, tra le altre cose, impongono meno leva, più capitale e un limite ad alcune delle attività di trading (quelle più rischiose secondo la Volcker rule). Insomma, è una tragedia e le nubi dei regolatori si addensano minacciose sul futuro altrimenti radioso delle banche d’affari.

In Italia questo non è un problema all’ordine del giorno perché l’indice azionario, per esempio, sta a un terzo circa di quanto stava all’inizio della crisi, perché le banche sono alle prese con una crisi economica drammatica che massacra i conti economici e perché l’austerity in Europa è ancora oggi la parola d’ordine. È impossibile sapere se certe analisi sarebbero scritte anche sui giornali nostrani, ma non siamo particolarmente ottimisti. Eppure il problema esiste e sinceramente ci auguriamo che prima o poi sia all’ordine del giorno anche nell’Europa continentale e anche in Italia, perchè vorrebbe dire che la crisi ha smesso di essere il primo e l’ultimo dei problemi.

La necessità di separare le banche d’investimento da quelle commerciali, piuttosto che l’introduzione di meccanismi che limitino gli effetti potenzialmente devastanti di bonus multipli dello stipendio con i loro effetti evidenti sulla propensione al rischio; e ancora la leva delle banche d’affari, i requisiti per operare le attività di trading più rischiose, il disallineamento tra interessi di alcuni azionisti e quelli di lungo periodo di banche e imprese partecipate sono elementi su cui riflettere attentamente. Se invece il problema numero uno è trasformare le banche popolari quotate in Spa, evidentemente il più perfetto nonchè unico dei modelli possibili (forse qualcuno pensa che Lehman Brothers fosse una popolare), allora essere ottimisti diventa quasi impossibile. Nel nostro piccolo anche qui si prova a seguire “l’America”: purtroppo solo nelle parti peggiori.

 

Twitter @annoni_pao