Lunedì il Presidente del consiglio Enrico Letta, nel corso di una conferenza stampa ad Atene col Premier greco Antonis Samaras, ha dichiarato che in autunno l’Italia presenterà un piano di privatizzazioni su cui il governo lavorerà ad agosto e a settembre. Poco meno di due settimane fa era stato il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni, in un’intervista a Bloomberg tv, ad aprire alla possibilità di utilizzare le partecipazioni detenute dallo Stato come collaterale in schemi di riduzione del debito pubblico. Ci sono abbastanza elementi per iniziare a riflettere su come queste intenzioni e idee si possano tradurre in programmi e poi fatti.
Le dichiarazioni, in realtà, non aiutano molto, perché nomi, quote, percentuali di eventuali cessioni non sono usciti, ma non serve particolare fantasia per cercare di capire dove il governo possa, eventualmente, andare a parare. Le società quotate partecipate dallo Stato sono Eni, Enel, Finmeccanica, Snam e Terna; sempre tra le quotate ci sono le utilities possedute dagli enti locali, la cui cessione difficilmente, però, porterebbe benefici per lo Stato centrale. Ci sono poste, ferrovie e poche altre società industriali oltre al portafoglio immobiliare.
In questo insieme non è particolarmente difficile individuare i target più plausibili. Delle utilities locali, le cui partecipazioni di controllo sono detenute dai Comuni, abbiamo già detto. La cessione del portafoglio immobiliare, che pure avrebbe molto senso, aprirebbe un’infinità di problemi pratici: dalle inevitabili lungaggini per individuare gli immobili da cedere, alle autorizzazioni necessarie con, probabilmente, conflitti tra enti pubblici di ogni ordine e grado, associazioni e comitati di quartiere, fino alla disponibilità non certa dei privati all’acquisto. Poniamo, per esempio, il caso della vecchia caserma o del vecchio carcere nel centro città. L’interesse dei privati si manifesterebbe con ogni probabilità solo a condizione di trasformare radicalmente l’immobile, magari aumentando i volumi. È una via percorribile, ma i frutti non arriverebbero di certo in tempi stretti, anche per le lamentazioni inevitabili contro la speculazione (molto meglio la caserma pericolante).
Le dismissioni delle società non quotate, a meno di processi decisionali e valutazioni estremamente sommarie e grossolane (che di solito non avvantaggiano il venditore), non avverrebbero mai alla stessa velocità di quelle quotate. Ecco perché, per concludere, sotto i riflettori finiscono, come ormai accade da anni, Eni, Enel e Finmeccanica; peccato però che siano rispettivamente attive nel settore dell’estrazione di gas e petrolio, in un Paese affamato di idrocarburi e senza materie prime (senza il gas piombiamo direttamente nel Medioevo), il leader italiano nella produzione di energia elettrica con partecipazioni in Europa e Sud America e una società industriale che possiede alcuni “gioielli” industriali italiani (Alenia, Agusta Westland, Ansaldo Sts tra le altre) invidiati e desiderati da mezzo mondo. È quindi evidente che il profilo meramente finanziario, la cessione di una partecipazione a un certo prezzo in un certo momento per ripagare il debito pubblico, convive con quello industriale e strategico.
I benefici finanziari dell’operazione sembrano decisamente sopravvalutati. Il debito italiano è superiore ai 2.000 miliardi di euro e nell’anno in corso verranno rifinanziati circa 400 miliardi di euro. Ipotizzando la cessione in borsa di tutte le partecipazioni si arriverebbe a una cifra dell’ordine di 50 miliardi di euro, cioè circa il 2,5% del debito pubblico italiano. Sempre solo dal punto di vista finanziario si perderebbero però i dividendi, di solito molto generosi che queste società puntualmente corrispondono al ministero del Tesoro.
Se questi sono fatti facilmente calcolabili, sarebbe da mettere nella valutazione anche la differente docilità dei nuovi azionisti alla tassazione italiana, che pure per lo Stato garantisce entrate. Siamo abbastanza sicuri, per esempio, che un investitore internazionale avrebbe opposto una resistenza più strenua, magari in sede europea, alla Robin Hood Tax di Tremonti del 2011 che ha colpito le aziende energetiche (comprese quelle partecipate dallo Stato).
Poi c’è il tema degli interessi strategici del Paese, evidenti nel caso di Eni ed Enel, che seppur difficilmente apprezzabili in termini numerici contribuiscono alla crescita italiana. Altro aspetto da considerare sono gli elevati investimenti, nel caso di Finmeccanica tra l’altro in tecnologia, ricerca e sviluppo, che oggi rimangono al di qua delle Alpi contribuendo a fare dell’Italia un Paese tecnologicamente avanzato con competenze in settori decisivi. Non è un tema da poco conto in uno scenario in cui l’industria torna prepotentemente di moda, in cui i paesi emergenti sono alla disperata ricerca di salti tecnologici e in cui non sembra indifferente ai fini di cui sopra l’azionista di riferimento di un’azienda.
Queste cessioni non sembrano, nel complesso, un grande affare per l’Italia, anche perché si tratta in tutti i casi di aziende non più replicabili, che se perse sarebbero perse per sempre. Gli ultimi 24 mesi hanno senza alcun dubbio dimostrato che il tema dello stock di debito pubblico (il valore assoluto) è secondario rispetto al contesto finanziario (per esempio, le azioni delle banche centrali) e ai ritmi di crescita dell’economia. Nessuno sembra particolarmente preoccupato dal debito pubblico americano su Pil superiore al 100% e oggi l’Italia paga meno interessi del decennale di 12 mesi fa anche se tutti gli indicatori di finanza pubblica sono peggiorati. Evidentemente il debito pubblico al 130% del Pil non è in generale, e soprattutto nel medio-lungo termine, sostenibile, ma in questo momento la priorità sembra essere decisamente tornare a crescere evitando le follie dell’austerity, eliminando sprechi e gestioni molto poco oculate che pure tutti vedono, con riforme, “sburocratizzazioni”, ecc.
Ipotizziamo però che le decine di miliardi di euro di cui si parla vengano effettivamente utilizzate per sostenere la crescita, per investimenti e infrastrutture, per spingere il Pil nel breve termine. Sembra però impossibile che non si possa pensare, in tempi di finanza creativa, a veicoli che riescano a convogliare il risparmio degli italiani (ancora un punto di forza) verso progetti di investimento, soprattutto se i soldi lasciati sul conto corrente rendono poco e niente. Se la situazione economica dovesse peggiorare e, soprattutto, se la pressione sui conti pubblici, che rimarrebbero orribili, europea non si attenuasse la situazione di fragilità italiana sui mercati finanziari non cambierebbe. Ma, sinceramente, i sospetti sulla validità dell’operazione sono più che legittimi se si parla di privatizzazioni, prima di riflettere su cosa si dovrebbe fare o su cosa si vorrebbe ottenere con l’eventuale incasso.
Nessuna discussione seria sul fatto che le privatizzazioni siano o meno opportune può essere intavolata senza questa discussione preliminare, la cui assoluta mancanza alimenta, tra l’altro, inevitabili sospetti e dietrologie: visto quello che è successo negli ultimi vent’anni (partecipazioni strategiche e società industriali eccellenti svendute) non sembrano nemmeno campate per aria.
Per qualcuno il piano di Letta sarebbe “una svendita, un garage sale di quello che resta dell’Italia” e si sarebbe di fronte “alla distruzione del tessuto produttivo e alla cessione di sovranità nazionale.” L’ha detto Beppe Grillo, ma sinceramente, date le premesse, non sono conclusioni particolarmente strampalate.
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