Gli annunci tranquillizzanti sull’ormai prossima fine della crisi, sulla ripresa imminente e l’immancabile luce in fondo al tunnel che si avvicina a grandi passi e, perché no, perfino sull’andamento positivo della borsa di Milano ormai sono all’ordine del giorno; perfino i “magazine” dei grandi quotidiani annunciano la fine del pericolo: “A sorpresa sono i numeri a metterci sulla strada dell’ottimismo” titola la storia di copertina dell’ultimo inserto de Il Corriere della Sera “Sette”. Di fronte a un tale spiegamento di annunci e di dati citati a sostegno di questa, nuova, tesi sembrerebbe che non si possa far altro che arrendersi e riconoscere, nonostante la realtà ancora drammatica che moltissimi sperimentano, il nuovo trend dell’economia mondiale, europea e italiana.
I dati, però, come sempre, sono interpretabili e si piegano facilmente, soprattutto se citati in modo parziale, a sostegno di quasi qualsiasi tesi. Per capire di cosa si potrebbe trattare si può usare un semplice esempio. Ipotizziamo che lo stipendio mensile fosse prima della crisi di 1500 euro e oggi sia 500 e che a settembre verrà aumentato a 510; sarebbe un incremento del 2%, ma evidentemente non ci sarebbe da stappare la bottiglia di champagne e, soprattutto, si sarebbe ancora in una situazione di precarietà economica estrema. L’Italia viene da otto trimestri consecutivi di calo del Pil, il numero di disoccupati è di gran lunga superiore a quello precedente alla crisi, la produzione industriale idem, il debito pubblico anche e così via per un’infinità di dati economici che si potrebbe citare a profusione e che, tra l’altro, coincidono molto di più con quanto ciascuno sperimenta o in termini personali o in quanto vede tra famigliari, amici e conoscenti.
Tra gli analisti e sul mercato questo “fenomeno” si chiama “comparison base”, un’azienda che viene da tre anni consecutivi di crescita del fatturato al 20% farà molta fatica a mantenere quei ritmi, perché l’incremento annuale si confronterà con dati sempre più forti; viceversa una che viene da un calo annuale del 50% farà molta poca fatica a mostrare un segno positivo. Non era preventivabile, almeno per chi scrive, che tra i vari effetti della crisi finanziaria si assistesse al trasferimento di uno dei vizi più radicati e perniciosi dei mercati finanziari all’“economia reale”: la mancanza quasi totale di memoria a lungo termine.
L’andamento economico degli ultimi trimestri ha una serie di implicazioni su quanto avverrà nei prossimi mesi. Il primo è che diventerà sempre “meno difficile” vedere un altro segno meno; il secondo è che i segni “più” di modesta entità che si stimano dovranno essere ripetuti per un lungo o molto lungo periodo di tempo prima che si ritorni alla situazione pre-crisi; il terzo è che più l’economia migliora, più i segni “più” si susseguono, più sarà difficile batterli.
Sui giornali finisce solo il primo elemento. Per rendere questi concetti più tangibili basta ricordarsi che la crisi ha lasciato il segno su migliaia e migliaia di imprese ed esercizi commerciali che o si sono ridimensionate o semplicemente non esistono più. Prima di assumere nuovi dipendenti o prima che qualcuno, italiano o non, decida di reinvestire in Italia, dopo aver deciso di licenziare o chiudere fino a pochi mesi fa, molte cose devono cambiare e probabilmente per un prolungato periodo di tempo.
Ad aggravare questa situazione ci sono diversi elementi: un debito pubblico più alto, un settore pubblico che ha attraversato la crisi molto più indenne di quello del privato (che si trova sulle spalle oggi molti più dipendenti pubblici di ieri e una tassazione insostenibile) e concorrenti stranieri che invece di colpi non ne hanno persi o ne hanno persi molti meno.
Non si tratta ovviamente di un proclama ad abbracciare un pessimismo cosmico, anche perché per molti mesi gli stessi giornali che oggi annunciano la fine della crisi e dei problemi hanno fatto credere a tutti che la situazione fosse molto peggiore di quella che in realtà era legittimando le misure di “austerity” che hanno fatto piombare l’economia in uno stato che altrimenti sarebbe stato migliore o molto migliore. Si tratta invece di non perdere coscienza del fatto che per ritornare, come tutti ci auguriamo, allo stato pre-crisi per acciuffare i concorrenti internazionali che nel frattempo sono andati avanti e per risolvere i problemi che hanno determinato una crisi che altri non hanno avuto occorre non perdere lo “spirito giusto”; quello delle riforme improcrastinabili, dei sacrifici giusti e inevitabili oltre alla volontà di lavorare di più e meglio.
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