Ieri il prezzo del petrolio è sceso per la prima volta da giugno 2010 sotto il livello di 70 dollari al barile con un calo che nel pomeriggio è arrivato a quasi il 7%. Il crollo di ieri è stato determinato dalla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione di petrolio mantenendola a 30 milioni di barili al giorno; tale scelta era al centro delle preoccupazioni dei mercati e degli osservatori per le implicazioni finanziarie, economiche e geopolitiche di un eventuale ulteriore calo del prezzo dell’oro nero.
Il prezzo del petrolio negli ultimi mesi aveva già perso il 30% circa e ieri si attendeva una “reazione” da parte dell’Opec; in particolare, la misura che si sarebbe dovuta adottare per interrompere il calo e far aumentare il prezzo era un taglio della produzione. Con la “non decisione” di ieri, l’Opec ha deciso che l’attuale prezzo va bene e in un certo senso ha comunicato di poter accettare prezzi ancora più bassi.
L’evento può apparire per “addetti ai lavori” e certamente così è stato per la stragrande maggioranza dei media che ha sostanzialmente ingnorato sia l’evento di ieri, sia quanto successo nelle ultime settimane. Le conseguenze invece sono importanti e molteplici. Intanto è lecito, nel breve, attendersi un’ulteriore diminuzione del prezzo della benzina, ma soprattutto è ragionevole attendersi che per molti mesi il prezzo del petrolio rimarrà sotto i livelli di questa primavera.
I paesi non produttori e consumatori, come, per esempio, l’Italia e più in generale l’Europa, avranno nel breve un vantaggio, mentre i consumatori potranno dedicare ad altro i soldi risparmiati in benzina. Concentrarsi però sugli effetti più vicini e immediati rischia di far perdere il quadro generale che invece è molto più complesso.
La decisione di ieri fa diverse “vittime”. Gli Stati Uniti che avevano vissuto una stagione di aumento esponenziale della produzione di petrolio grazie allo shale vengono messi sotto pressione dall’Opec e dall’Arabia saudita. Il costo di estrazione di un barile di shale oil è un multiplo di quello dei concorrenti mediorientali. Sotto i 70 dollari al barile il numero di produttori americani sotto pressione è destinato ad aumentare e la “crisi” potrebbe peggiorare se il prezzo dovesse scendere ancora. La rivoluzione dello shale oil potrebbe essere fortemente ridimensionata se non “uccisa” dopo una fase in cui i produttori più deboli finanziariamente o quelli con i costi di produzione più alti sono costretti a uscire dal mercato.
Non è solo un problema interno all’industria petrolifera americana, dato che le società produttrici hanno contratto debiti con le banche e piazzato bond sui mercati; è difficile stimare quale sia la dimensione dell’impatto “finanziario”, ma gli investimenti fatti sono stati molto elevati e la crisi di un intero settore, soprattutto se ha emesso decine di miliardi di dollari di bond, desta già più di una preoccupazione.
Il secondo fronte è quello degli altri paesi produttori. Il calo del prezzo non è solo un problema per il Venezuela (che ha preso malissimo la decisione dell’Opec) e la sua già precaria situazione economica. Ieri il rublo ha toccato nuovi minimi dopo la forte svalutazione delle ultime settimane: il calo del prezzo del petrolio mette sotto pressione l’economia e le finanze russe e la svalutazione del rublo è la conseguenza di questo movimento. Se il prezzo dovesse rimanere basso per molti mesi l’economia russa potrebbe essere messa sotto forte pressione nel 2015. Il problema non è circoscritto solo alla Russia, ma si estende ad altri Paesi produttori con “economie emergenti” come la Nigeria, il Brasile o l’Algeria.
L’ultimo aspetto è quello che più strettamente riguarda i mercati finanziari. Innanzitutto, la “speculazione” influenzerà il prezzo del petrolio aumentandone la volatilità e dando vita a giornate con cali molto pronunciati (come ieri) o a fasi di estrema debolezza. Lo scossone di ieri su una delle industrie più importanti a livello globale (se non la più importante insieme a quella finanziaria) con le conseguenze per intere economie o interi “sub-settori” (come lo shale americano) avviene in una fase di fragilità della crescita globale e dei mercati ancora sostenuti dalle banche centrali e per questo desta più di una preoccupazione. Almeno per questa ragione occorrebbe un po’ più di attenzione per un fenomeno che solo apparentemente riguarda addetti ai lavori o investitori.