Dopo una giornata a dir poco spumeggiante per la borsa di Milano che ha chiuso con un roboante +3,4% è arrivata la classica doccia gelata con il downgrade di Standard & Poor’s. L’agenzia di rating ha tagliato il proprio giudizio da BBB a BBB-, l’ultimo gradino dell’investment grade, motivando la propria decisione con un’analisi che non lascia molto all’immaginazione e che soprattutto descrive la situazione attuale infinitamente meglio della performance di ieri di Piazza Affari.

L’incipit dell’analisi è tutto un programma: “Il downgrade riflette la debolezza attuale che riscontriamo nell’andamento del Pil reale e nominale, inclusa l’erosione della competitività, che stanno mettendo a rischio la sostenibilità del debito pubblico”. È interessante notare innanzitutto che sia la debolezza della crescita a sollevare preoccupazioni sul debito, dato che molto probabilmente nel contesto attuale quello stesso debito con una performance economica un po’ migliore non preoccuperebbe nessuno.

Le apprensioni sull’economia italiana sono esplicitate in una previsione di crescita del Pil nel 2015 di appena lo 0,2% contro la precedente stima di S&P dell’1,1% e, soprattutto, contro una stima del governo dello 0,7%. Se questa previsione fosse corretta, la ripresa di cui si parla nel 2015 sarebbe praticamente inesistente e certamente insufficiente per far ripartire veramente un motore fermo ormai da diversi anni e per invertire un trend del mercato del lavoro estremamente negativo.

Secondo l’agenzia di rating, il debito pubblico italiano toccherà la cifra di 2256 miliardi di euro nel 2017: è una cifra immune a qualsiasi privatizzazione o aumento di tasse e con cui si può convivere (tranquillamente visto, per esempio, il caso del Giappone) solo con una crescita significativa. A proposito di debito e tasse, S&P nota come lo spazio per il governo per alzare il già altissimo carico fiscale sia molto limitato; la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro potrà avvenire solo compensando con tagli, ma i piani del governo a questo riguardo “mancano di dettaglio”. La possibilità di mettere in atto manovre anticicliche con uno stimolo si scontrano con la limitata flessibilità fiscale dell’Italia.

Fatte queste premesse, l’agenzia di rating entra nel dettaglio dei problemi economici italiani. L’analisi inizia con la mancanza di flessibilità del mercato del lavoro: nonostante l’esplosione della disoccupazione, i salari tra il 2008 e il 2014 sono saliti del 12%. S&P nota come il governo Renzi “abbia fatto alcuni progressi con il Jobs Act”, ma si dice preoccupata per i decreti attuativi che potrebbero depotenziarlo, mentre spinge per un differente meccanismo di determinazione dei salari che invece non è parte degli attuali sforzi di riforma; in questo senso, S&P sembra essere favorevole a una maggiore decentralizzazione che migliori la ricettività dei salari alle condizioni economiche sottostanti. In ogni caso, l’agenzia non crede che la riforma del lavoro, anche se sarà di aiuto, potrà creare occupazione nel breve periodo fino a che non ci sarà crescita.

Il secondo tema sollevato è quella del difficile ambiente per le imprese, che rimane un ostacolo sia all’occupazione che agli investimenti esteri. S&P, in particolare, evidenzia un settore dei servizi rimasto senza riforme, un sistema giudiziario lento e costoso e costi del lavoro, non legati alla retribuzione, elevati inclusi alti costi legali e amministrativi. A questo si aggiunge anche un costo dell’energia sostanzialmente più alto dei “competitor” dell’Italia. Per concludere, l’agenzia non crede che le riforme annunciate possano migliorare la situazione nel breve termine, mentre “le persistenti deboli condizioni economiche potrebbero far emergere rischi fiscali prima che le riforme strutturali per la crescita manifestino i loro effetti”.

Da queste analisi possiamo riassumere alcuni punti. Il primo è che le riforme non sono state fatte o sono, a oggi, embrionali (lavoro, burocrazia, sistema giudiziario ancora ampiamente migliorabili) e che un grande numero di questioni rimane irrisolto mentre l’ambiente per le imprese continua a essere estremamente difficile sia da un punto di vista fiscale che da uno “burocratico-amministrativo”. Il secondo è che la possibilità di uno shock fiscale o di stimolo è remota in questo contesto politico e ciò probabilmente riguarda più l’Europa che l’Italia. Il terzo è che l’unica vera ricetta per il debito italiano è una maggiore crescita.

In ogni caso, per quanto compete all’Italia, sul punto “uno” c’è sicuramente ancora molto su cui lavorare.