Ieri la borsa di Milano ha chiuso con un calo del 2,7% dopo aver perso dai massimi di metà giugno circa l’8%; non è andata bene neanche nel resto d’Europa con gli indici in netto calo: -1,35% in Germania, -1,44% in Francia e nel Regno Unito. I segnali di nervosismo non si sono limitati al mercato azionario e il mitico spread Btp-Bund in un giorno ha preso circa 15 punti arrivando a quota 163. Le banche quotate a Milano sono andate anche peggio con i -3% e i -4% di Unicredit e Intesa Sanpaolo e i -5%/-6% delle popolari. C’è abbastanza materiale per domandarsi cosa ci sia dietro questi cali, anche perché due giornate così negative di fila non si vedevano da molte settimane.
Le interpretazioni possono essere sostanzialmente divise in due grandi categorie. In un caso si tratta semplicemente di uno storno o presa di profitto dopo mesi di rally quasi ininterrotto e con le valutazioni dei titoli molto generose. Nel secondo caso invece si tratta, se non già di un cambio, di dubbi degli investitori sullo scenario che ha caratterizzato i mercati negli ultimi dodici mesi.
Lo scenario, è sempre lo stesso: è quello in cui le banche centrali non fanno mancare il loro sostegno e la liquidità rimane abbondante per un considerevole orizzonte temporale mentre si cominciano a vedere i segni della ripresa. In questo scenario gli Stati non hanno problemi a rifinanziare il proprio debito, i bilanci statali migliorano per la ripresa e le imprese vedono un miglioramento di ricavi e utili; da ultimo il mercato del lavoro migliora e i consumi riprendono.
Quanto possa durare questa scommessa è una domanda per ora senza risposta, ma è decisamente difficile ipotizzare che non abbia una scadenza. In ogni caso la scommessa è andata avanti nonostante la ripresa fosse o debole e sotto le attese, come negli Stati Uniti, o completamente assente, come in Italia. Questa “smentita” non solo non ha preoccupato il mercato, ma era, in un certo senso, parte integrante dello scenario sposato dagli investitori. I dati economici sono pessimi, il mercato del lavoro non migliora ma entrambi miglioreranno e quindi occorre anticipare.
Sia che si fossi convinti o meno, non c’era in realtà alternativa perché le banche centrali sotto forma di interessi minimi e liquidità abbondante rendevano praticamente impossibile avere altre idee. Chiunque sia andato corto sul mercato italiano negli ultimi 12 mesi oggi o è molto più povero di prima o ha cambiato mestiere; vendere quando tutti gli altri comprano alla lunga non è sostenibile.
Alla fine del 2013 la ripresa, per esempio in Italia, veniva collocata nel 2014; sicuramente il secondo trimestre e ancora di più il terzo avrebbero dovuto mostrarne gli effetti. La realtà però è molto diversa e i dati sul Pil e la disoccupazione lo testimoniano senza possibilità di smentita. Oggi quindi o il mercato decide, semplicemente, di spostare quanto aveva previsto di altri 6/12 mesi oppure comincia a mettere in discussione le ipotesi di partenza; le due cose in un certo senso non si escludono.
La riflessione ovviamente non può non partire dalla constatazione che nonostante tutte le attese la ripresa non solo non ci sia ma che non si intraveda nemmeno a meno che qualcuno scambi gli “0” virgola del Pil per crescita dopo sette anni di recessione. L’analisi potrebbe essere più o meno la seguente.
Le banche centrali manterranno i tassi bassi per un bel po’ ma la Bce continua a rimandare il quantitative easing e non mette in atto strumenti “non convenzionali” in grado di avere un impatto più diretto sulla “economia reale”. La ripresa non c’è e non si vede. In Europa chiunque abbia osato sfidare la Germania, come ricordava ieri il Financial Times, sul non rispetto dei target di deficit e debito pubblico ha perso (da Rajoy a Hollande). Anche oggi le richieste di Renzi trovano da parte tedesca un’opposizione formidabile appena si devono tradurre in concessioni pratiche e reali.
Le riforme nella terza economia dell’area euro? Non pervenute: la macchina statale e burocratica è esattamente la stessa, identica e completamente immutata, dal 2007 con l’economia privata in ginocchio, nella peggiore delle ipotesi, o alla ricerca continua di risparmi e tagli di costo. Chiunque oggi volesse scommettere sulla ripresa italiana dovrebbe chiedersi se le regole europee cambieranno, se ci saranno le riforme e se infine l’economia internazionale sarà così forte da coinvolgere anche un’immobile Italia che sta in un’immobile Europa.
A questo riguardo tra rallentamenti in Cina, dati sotto le attese negli Stati Uniti e aumento delle tensioni e dei rischi geopolitici si possono nutrire diversi dubbi. L’andamento dei mercati ha convinto che tutto si potesse risolvere per inerzia, senza fatica e sacrifici, ma al momento questo non solo non sta avvenendo ma non si sono nemmeno create le condizioni perché avvenga. Domani il mercato potrebbe fare -3% o +3% e recuperare i cali ma la questione si porrebbe lo stesso se non altro per i milioni di disoccupati.
Un’ultima considerazione. L’Italia giustamente chiede più flessibilità ma in cambio non ha nulla da offrire se non un aumento record della pressione fiscale, unica e vera costante degli ultimi governi. Qualcuno spieghi, se può, al contribuente tedesco perché dovrebbe dare flessibilità a un Paese in cui non si sa quando iniziano e finiscono i processi, in cui le amministrazioni fallite vengono salvate puntualmente senza nessuna conseguenza per nessuno (perché invece un privato perde il posto?), in cui si paga un miliardo e mezzo di euro all’anno per la televisione di Stato, in cui nemmeno con i certificati di malattia falsi e lo stipendio garantito si perde il lavoro ecc.: tutto questo esattamente come nel 2007. Auguri.