Secondo la Banca d’Italia, il debito delle amministrazioni pubbliche a giugno ha raggiunto il nuovo massimo storico a 2.168,4 miliardi di euro. Il numero particolarmente ricco di zeri e difficile da collocare nella realtà quotidiana fatta, nella maggioranza dei casi, al massimo da migliaia di euro impressiona i lettori e induce un senso di inquietudine diffusa. Il periodo ferragostano lascia la “notizia bomba” senza concorrenza sulle prime pagine dei giornali con più risalto e per più tempo di quanto avverrebbe normalmente; la priorità economica diventa quindi quella di diminuire lo stock di debito in un certo senso il più velocemente possibile senza porsi troppe domande e senza pensare alle conseguenze. Diventa quasi impossibile ricordare che l’urgenza di riportare il deficit in linea con i parametri europei senza alcuna considerazione per il contesto economico durante il governo Monti ha determinato in Italia la peggiore recessione dalla crisi del ‘29.



È inutile evidenziare, se queste sono le premesse, che sparare un numero senza alcun rapporto con il denominatore, il Pil, è fonte solo di una grandissima confusione; economie che, pur con ancora diversi giri a vuoto, stanno uscendo dalla crisi, come quella americana, viaggiano con rapporti debito/Pil sicuramente superiori a 100.



Il punto però non è nemmeno questo; porsi come obiettivo una riduzione significativa e apprezzabile dello stock di debito in un tempo ragionevolmente breve è senza senso. Anche ammessa una cessione completa di tutte le partecipazioni pubbliche si avrebbe una riduzione di circa il 5% dello stock di debito con la perdita di asset che producono dividendi e investimenti sul suolo italiano. In alternativa – o in aggiunta – si potrebbe immaginare un’altra finanziaria lacrime e sangue o una patrimoniale che arrivi a toccare i conti correnti di tutti gli italiani, in particolare, ovviamente, di quelli più ricchi.



Le conseguenze sulla “fiducia dei consumatori”, sulla “propensione ai consumi” sarebbero devastanti; l’impatto sul settore della nautica, devastato, delle normi “anti-evasione” o “robin-hood” del governo Monti dovrebbero insegnare che spesso le conseguenze accidentali e sull’economia reale sono molto diverse dalle previsioni perfette sulla carta. Le tasse sul “trading” di borsa che in teoria avrebbero dovuto colpire i cattivissimi speculatori si sono in realtà tradotte in un’ulteriore marginalizzazione della Borsa italiana, con le società quotate che abbandonano il listino di Milano e le società finanziarie italiane in difficoltà, mentre gli “speculatori” veri sono in grado di fare esattamente le stesse cose e nello stesso modo di prima.

La prospettiva appare quindi completamente miope e sbagliata, ma nonostante la storia economica recente e alcuni fatti e numeri difficilmente contestabili il clima rimane esattamente quello che ha alimentato la crisi attuale. Un esempio su tutti è il progetto di cessione di Saipem da parte di Eni. Nonostante Eni sia la società più grande per capitalizzazione sul listino italiano e nonostante Saipem sia la maggiore società italiana di ingegneria e una delle società più importanti e avanzate al mondo nel suo settore (in alcuni casi certamente la più avanzata), il progetto di cessione di Saipem annunciato dall’amministratore delegato di Eni in occasione dei risultati semestrali è stato relegato tra le pagine interne dei quotidiani economici.

Il modo in cui la notizia è stata trattata, il risalto che ha – o meglio non ha – avuto è impossibile da non rilevare, tanto più se poi si sprecano paginate e prime pagine su società grandi meno della metà. In pratica la cessione di Saipem è una normalissima decisione aziendale di una normalissima società italiana; il fatto che l’ad di Eni dichiari che sia una “sua decisione” come se questo bastasse a chiudere la discussione sembra altrettanto incredibile.

La cessione di Saipem fa comodo a tanti: sicuramente a chi si compra un leader indiscusso riconosciuto a livello globale nel campo dell’estrazione del petrolio con il titolo che tratta a meno della metà dai massimi raggiunti; sicuramente al governo italiano che incasserà un maxi-dividendo da Eni; sicuramente ai tantissimi fondi esteri presenti nel capitale di Eni. Eni d’altronde deve diventare una oil company “normale” e quindi non può controllare una società di ingegneria che ha avuto tanti problemi “legali” nei Paesi produttori di petrolio (ovviamente solo gli italiani fanno certe cose in Africa). Peccato che l’Italia non abbia un peso “politico internazionale” particolarmente spiccato, che non abbia risorse naturali e che, per un motivo o per l’altro, abbia perso per strada negli ultimi anni tanti partner energetici, dalla Russia alla Libia.

Controllare Saipem è evidentemente decisivo nei rapporti con i Paesi produttori; l’Italia può offrire un “pacchetto” completo di investimenti e tecnologia ai Paesi produttori in cambio di contratti di fornitura. Tutti discutono di crescita, molti si sono convinti in teoria che certe politiche fiscali ed economiche siano sbagliate, pochi traggono le conclusioni pratiche in termini di “sistema Paese”, indipendenza economica, investimenti e mantenimento di quell’apparato industriale che solo può garantire il benessere economico.

Perdere una società costruita in 60 anni dall’Italia e insostituibile e non replicabile nel contesto attuale, però, non è un tema da prima pagina, nemmeno dell’inserto finanziario dei quotidiani economici. Verrebbe persino da chiedersi se per caso non ci sia anche un minimo di malafede.