Ieri si sono tenuti gli attesissimi discorsi di Janet Yellen, presidente della Fed, e di Mario Draghi, governatore della Bce, a Jackson Hole. Il mercato e gli investitori attendevano da settimane l’appuntamento per avere dai due un aggiornamento sullo stato di avanzamento dei lavori dall’inizio della recessione e in particolare su quale fosse la strategia delle banche centrali da qui in avanti. Fed e Bce, e le loro politiche, sono state protagoniste indiscusse sui mercati dall’inizio della crisi finanziaria e poi economica iniziata con il fallimento di Lehman Brothers nell’autunno del 2008. Gli annunci dei governatori o il varo di nuove politiche ha determinato il destino dei mercati per mesi e anni dando vita a rally di borsa o risolvendo in poche settimane crisi dei debiti sovrani sempre occupando i primi posti nel dibattito politico. Stante queste premesse, non è difficile intuire quale sia il livello di attenzione degli investitori quando i governatori fanno il punto della situazione e spiegano cosa intendono fare nel futuro.



Chiunque leggerà i discorsi tenuti ieri da Draghi e dalla Yellen non potrà non notare le differenze enormi nelle premesse e nel riassunto della situazione attuale del mercato del lavoro. L’americana ha pouto iniziare illustrando i miglioramenti marcati e diffusi del mercato del lavoro statunitense dall’inizio della crisi ottenuti con l’aiuto decisivo proprio della Fed: il tasso di disoccupazione a luglio 2014 negli Stati Uniti è stato del 6,2,% in calo di 4 punti percentuali dal picco del 2009; non solo, il miglioramento è avvenuto più velocemente di quanto la Fed si aspettasse. Draghi invece è dovuto partire da un quadro estremamente diverso sia perché il tasso di disoccupazione è quasi doppio, l’11,5%, sia perché questo dato è la media di paesi con un tasso del 25% (la Spagna) e di quelli con un tasso del 5% (la Germania).



La Yellen ha certamente dovuto precisare e riconoscere che il dato di cui sopra non coincide con uno scenario privo di elementi di debolezza o preoccupazione. La crisi negli Stati Uniti ha determinato un calo della partecipazione al lavoro (persone che sono uscite dal mercato del lavoro e non cercano più) o una situazione in cui una persona lavora meno di quello che vorrebbe (per esempio, part-time che vorrebbero diventare full-time ma non possono). Non è quindi semplice, ha concluso la Yellen, misurare “il reale stato di salute” del mercato del lavoro e quindi oggi una decisione di innalzamento dei tassi sarebbe prematura. Con toni molto misurati e bilanciati, come osservato da tutti i commentatori, il presidente della Fed si è tenuta le mani libere per il prossimo futuro in attesa di avere una conferma della definitiva guarigione che non è ancora certa (ma l’attesa non durerà anni). La stessa Yellen però ha dovuto precisare che in caso di miglioramento definitivo la fine delle politiche espansive potrebbe essere più veloce del previsto.



Draghi, a fronte di una situazione europea preoccupante e in alcuni Paesi drammatica, non ha potuto discutere delle modalità di uscita dalle politiche espansive. Il discorso del presidente della Bce è stato centrato sulle “ricette” per uscire dalla crisi in un certo senso come se si fossero persi sei anni di tempo. A questo riguardo si è concentrato su due punti. Il primo è quello relativo alle modalità con cui aumentare la domanda. Draghi ha rassicurato i mercati sull’effettiva partenza delle misure di politica monetaria annunciate a giugno che dovrebbero garantire ancora tassi bassi; ha dovuto però precisare che c’è il rischio reale che l’azione della Bce perda efficacia nel generare domanda.

Sempre sul lato della domanda Draghi ha suggerito un migliore utilizzo delle politiche fiscali: usare la flessibilità nelle regole attuali, avere politiche fiscali più favorevoli alla crescita e neutrali dal punto di vista del budget, avere un coordinamento maggiore a livello europeo e infine promuovere un massiccio programma di investimenti pubblici.

Il secondo punto su cui si è concentrato Draghi è quello delle riforme strutturali, perché “nessuna politica fiscale o monetaria può compensare le riforme strutturali necessarie nell’area euro”. Per ridurre la disoccupazione occorre migliorare il mercato del lavoro, quello dei prodotti e l’ambiente in cui si muovono le imprese. Per migliorare il mercato del lavoro ha suggerito l’introduzione di una contrattazione al livello delle imprese e l’innalzamento delle competenze dei lavoratori (“l’economia dell’area euro non può competere solo sui costi con i Paesi emergenti”). Queste sono per Draghi le condizioni perché nel lungo termine ci sia in ogni Stato membro dell’eurozona un alto livello di occupazione.

Il Presidente della Bce ha ribadito che farà la sua parte anche se il rischio che le politiche monetarie diventino inefficaci è alto. Le altre “due” parti toccano all’Europa che, sempre ammesso che voglia, deve trovare una via per crescere nel suo insieme (una via, per inciso, che non può essere la brutta o bella copia di quella americana), e ai singoli Paesi, che non possono più evitare le riforme strutturali: lavoro e “ambiente” in cui si muovono le imprese (immaginiamo tasse, burocrazia, giustizia, ecc.).

È impossibile dire quanto tempo possa ancora garantire all’Europa e all’Italia la Bce, tanto più se la Fed sta seriamente valutando di alzare i tassi dopo avere dato una grossissima mano anche all’Europa. Il fatto che non lo sappia nessuno, tra guerre in Europa e Medio Oriente, non dovrebbe lasciare particolarmente tranquilli e, soprattutto, dovrebbe consigliare molta, moltissima fretta e urgenza. La coesione di lungo termine dell’area euro, ha concluso Draghi, dipende dal raggiungimento in ciascun Paese di un alto livello di occupazione.

In pratica, la nostra parafrasi, se l’Unione europea fallisce nel suo insieme e nel ridurre le differenze, oggi enormi, tra i suoi membri, la sua stessa sopravvivenza, in particolare della moneta unica, smetterebbe di essere un fatto scontato.