Un’azienda tedesca è finita nuovamente, suo malgrado, al centro dell’attenzione della stampa internazionale; ieri ha fatto il giro delle principali testate economico-finanziarie la notizia che Deutsche Bank a giugno ha per sbaglio mandato a un hedge fund americano sei miliardi di dollari per poi recuperare il giorno dopo la somma. In particolare, un dipendente junior del desk valutario, mentre il responsabile era in vacanza, avrebbe digitato una somma lorda invece che netta facendo un “regalo” multimiliardario alla controparte; Deutsche Bank è stata costretta a far presente l’errore alla Fed, alla Bce e all’autorità finanziaria inglese. Lo scandalo è stato definito “imbarazzante” dal Financial Times, che ha riportato per primo la notizia, anche perché la banca tedesca è già oggetto di diverse indagini che vanno dallo scandalo della manipolazione del Libor fino al riciclaggio in Russia passando per la violazione delle sanzioni americane contro l’Iran.
L’errore da sei miliardi di dollari è sicuramente pessima pubblicità per la banca tedesca e, comprensibilmente, costringe molti osservatori a chiedersi come sia possibile che una svista di questa portata non venga “notata” e fermata un secondo prima dell’esecuzione e non, com’è successo, un secondo o qualche minuto dopo. Occorre anche rispondere alle domande sul possibile ripetersi di certi errori perché un sistema che consente certe sviste può potenzialmente consentirne altre a cui invece potrebbe essere impossibile porre rimedio senza conseguenze sostanziali. La notizia dell’incidente di giugno arriva mentre Deutsche Bank è occupata a rassicurare il mercato sulla solidità dei propri bilanci e sulla trasparenza dei suoi ricavi da trading e in questo senso risulta particolarmente sensibile e interessante per gli investitori.
Se spostassimo l’attenzione dal fatto più recente dovremmo però essere costretti a riconoscere che le domande scomode che si possono fare oggi a Deutsche Bank riguardano, in un certo senso, tutto il settore. Si può citare per esempio “l’episodio” capitato negli uffici londinesi di JPMorgan dove un singolo trader nella primavera del 2012 accumulava perdite per diversi miliardi di dollari (pare più di 5) prendendo posizione, dalla parte sbagliata, nel mercato dei credit default swaps; il singolo trader in questione, Bruno Iksil, aveva nei mesi puntato così forte da aver creato una mezza leggenda sul mercato e da essersi meritato il soprannome di “balena di Londra” (London Whale). Andando ancora più indietro non si può fare a meno di dimenticare che società che fino al giorno prima venivano considerate la crema della crema della finanza globale sono crollate senza quasi avvisaglie nell’autunno del 2008. Deutsche Bank e Jp Morgan, appena citate, sono sicuramente tra le banche d’affari globali più grandi e rinomate.
L’impressione che si ricava è quella di un mercato finanziario strutturalmente opaco e dove operano soggetti che quando sbagliano danno origine a perdite miliardarie; il mercato sembra strutturalmente molto vulnerabile a shock o eccessi di volatilità. In questo senso l’altra impressione è che non sia cambiato molto rispetto allo scenario del 2007 e del 2008 in cui, improvvisamente, ci si è accorti di una fragilità per certi versi insospettabile. Le banche centrali hanno salvato i mercati impedendo il collasso e oggi sono costrette a chiedersi se il sistema finanziario sia pronto per una normalizzazione dei tassi o se invece non si rischi di dare origine a volatilità insostenibili per i mercati attuali.
“Salvare” i mercati va bene, ma non può essere una scusa lunga sette anni per evitare di affrontare le criticità vere di un sistema fatto di soggetti troppo grandi, troppo complessi e che si prendono troppi rischi; un sistema in cui, tra l’altro, sopravvivono utili da trading miliardari e bonus milionari.