Dopo settimane di rumours “circostanziati e concordanti”, lunedì è arrivata la conferma ufficiale dell’incremento della quota di Vivendi in Telecom Italia; in una comunicazione all’americana Sec il gruppo Vivendi ha dichiarato di essere salito al 19,88% dell’ex monopolista italiano. Telecom Italia ha quindi ormai oltre ogni evidenza un nuovo azionista, industriale, di riferimento che è sostanzialmente in grado di determinare la sua strategia. Vivendi ha speso poco più di 3 miliardi di euro per la quota in Telecom Italia e in un comunicato stampa emesso martedì ha dichiarato che l’incremento della quota dal 14,9% al 19,9% “conferma l’intenzione di supportare il gruppo telecom nel lungo periodo e di svilupparne le attività in Sud Europa”.
È evidente a tutti che quella percentuale non può essere scambiata per un passaggio di breve periodo o per una partecipazione meramente finanziaria ed è altrettanto evidente che Telecom Italia è entrata a tutti gli effetti nell’orbita di Vivendi e che ne condividerà volente o nolente le sorti anche e soprattutto in caso di M&A europeo. Allo stato attuale, la partecipazione di cui sopra, tra le altre cose, consente di nominare la maggioranza del cda.
La portata della novità travalica i confini nazionali e impatta direttamente lo scenario europeo del settore telecom il cui destino prossimo sembra essere quello di un ulteriore consolidamento. Anche il Financial Times si è interrogato sulle ragioni e gli obiettivi di Vivendi e del suo principale azionista Bolloré, anche e soprattutto perché la società francese aveva appena deciso di vendere le rimanenti partecipazioni nel settore telecom per diventare un “content player” puro. Il quotidiano inglese avanza l’ipotesi che la mossa di Vivendi sia in realtà una scommessa “opportunistica” sul consolidamento europeo in cui Telecom Italia giocherà da target e preda. È un’ipotesi possibile perché muovere ed eventualmente consegnare una quota di maggioranza relativa del 20% determina lo status di interlocutore numero uno, e anche due e tre, per chiunque deciderà mai di considerare l’acquisto o il consolidamento di Telecom Italia.
La strategia di Vivendi potrebbe anche contemplare l’obiettivo di “usare” Telecom Italia come strumento per veicolare i propri contenuti e un impegno diretto nel settore media italiano; sono ipotesi possibili, ma rimane il fatto che il “blitz” telefonatissimo di Vivendi, che in molti hanno visto con mesi di anticipo, ha reso il gruppo italiano una pedina mossa da altri nello scacchiere europeo. Questo è sicuramente l’aspetto più interessante perché nella pancia di Telecom Italia c’è la rete che è un asset non replicabile e strategico per la competitività del sistema Paese e di tantissime sue imprese.
In questo senso lo “Stato italiano”, il “sistema Paese” ha ogni interesse a raggiungere una situazione in cui si investa nella rete e nessun interesse per una situazione in cui un azionista “finanziario” o industriale abbia invece come unico o principale obiettivo quello di staccare dividendi minimizzando gli investimenti. Questo interesse oggi incontra una realtà in cui, causa tassi schiantati, l’appetito per asset infrastrutturali con buona visibilità su ricavi e utili è enorme.
Le nuove ipotesi di fusione tra la rete di Telecom Italia e Metroweb nella misura in cui creano un operatore dominante sul mercato, “senza rivali”, e quindi con ricavi stabili fanno intravedere la nascita di una società che può diventare interessantissima per un numero imprecisato di operatori industriali e finanziari. Il sistema Paese ha interesse che si investa nella rete, un mestiere che gli operatori non sono entusiasti di fare perché la concorrenza e l’innovazione tecnologica l’hanno reso estremamente dispendioso e con ritorni molto incerti.
Se la prospettiva, come sembra, è quella di creare un unico operatore, o un operatore dominante o co-dominante, che abbia tutti i mezzi per investire, allora è necessario assicurarsi un qualche tipo di controllo sostanziale. L’attivismo di Vivendi e i rumours di consolidamento europeo, oltre che l’appetito enorme per asset infrastrutturali, fanno pensare che non ci sia davvero più tempo da perdere per creare una cornice e una governance in cui siano salvaguardati gli interessi del sistema.