Ieri l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha comunicato l’aggiornamento del proprio giudizio sull’Italia confermando sia il rating BBB- sia l’outlook stabile. La conferma del rating è stata comunque un’occasione per fare il tagliando alla situazione economica italiana e alle prospettive dei conti pubblici. S&P ha riconosciuto gli sforzi del governo che si sono tradotti nella riforma scolastica, del mercato del lavoro, delle banche popolari, oltre che del sistema elettorale e del Senato. Nonostante questi sforzi, l’agenzia ha dovuto premettere che il giudizio sull’Italia è limitato dalla debolezza del Pil e dalla diminuita competitività del sistema, oltre che dall’alto debito pubblico che, sottolinea l’agenzia, è il terzo più alto dopo quello greco e giapponese tra i 130 Paesi oggetto di analisi.

Anche S&P si è avventurata in alcune previsioni sulle prospettive economiche italiane: il Pil crescerà dello 0,8% nel 2015 e dell’1,3% medio tra il 2016 e il 2018. Questi trend, secondo l’agenzia, non permetteranno al Pil italiano di arrivare ai livelli pre-crisi prima del 2024. A dispetto dell’ampia letteratura prodotta negli ultimi mesi sulla “ripresa” italiana, sugli indicatori ai livelli pre-crisi, la verità ci viene ancora una volta ricordata in una ricerca in inglese di un’agenzia americana; ci vorranno altri nove lunghissimi e pieni di incognite anni per tornare ai livelli del 2007. La ripresa dei consumi è iniziata, ma la disoccupazione rimane all’11,8%. Ancora una volta ci vengono poi ricordati due dei principali motivi della mini ripresa italiana e cioè basso prezzo del petrolio e indebolimento dell’euro: due fattori completamente esogeni.

S&P non si esime da un’analisi della situazione politica: dopo le riforme del lavoro, della scuola e delle popolari quelle della Pubblica amministrazione e del sistema giudiziario sono lente e non verranno finalizzate, secondo l’agenzia, prima delle prossime elezioni politiche che potrebbero essere anticipate all’inizio del 2017. S&P teme che le imminenti elezioni amministrative e il probabile referendum sulla riforma del Senato nel 2016 possano rallentare le riforme del governo. L’agenzia ritiene che la recente finanziaria mostri un rallentamento nella riduzione del deficit e non ritiene raggiungibili i target di deficit dell’Italia dei prossimi anni: il dito viene puntato in particolare contro la riduzione degli interventi di spending review. La riduzione delle tasse è solo parzialmente finanziata da riforme strutturali e si basa invece su attese di crescita e sulla temporanea flessibilità in sede europea. In questo senso il bilancio italiano è per S&P vulnerabile, in particolare a un possibile normalizzazione dei tassi ora “distorti dalle politiche della Banca centrale europea”.

L’agenzia teme anche l’assenza di investimenti e sottolinea come la crescita economica italiana sia stata molto inferiore a quella degli altri Paesi sviluppati. S&P ritiene che “l’economia italiana rimanga non sincronizzata con il resto dell’eurozona”; parafrasando, l’Italia fa sempre peggio. Il quadro che emerge è quello di un Paese che dopo molti anni di crisi cresce a livelli molto bassi, spinto da eccezionali condizioni esterne e che si sta rifiutando di affrontare i nodi veri: riforma dell’amministrazione pubblica, spending review e riforma della giustizia. L’economia italiana rimane fragile e il suo bilancio vulnerabile a una normalizzazione dei tassi; oggi, per la cronaca, siamo in una situazione completamente anomala in cui i Bot hanno un rendimento negativo.

Il prezzo di questa inazione è una disoccupazione a doppia cifra e soprattutto una lunghissima attesa, altri nove anni, prima di tornare ai livelli pre-crisi. Quando leggeremo di ripresa e aumenti del Pil allo zero virgola l’unico numero che dovremmo ricordarci è 2024: l’anno in cui, se tutto va bene, torneremo ai livelli del 2007. Diciassette anni, con qualche Quantitative easing di mezzo, per spostare il Pil un po’ più in là. Sembrano, e sono, un’eternità.