Ieri è stato annunciato l’accordo con cui il gruppo indiano “Mahindra” acquisterà la maggioranza delle azioni di Pininfarina. L’operazione prevede l’acquisto della maggioranza delle storico marchio italiano dalla holding Pincar, che controlla il 76%, e poi il lancio di un’opa sulle azioni rimanenti a 1,1 euro per azione (lo stesso prezzo a cui Mahindra acquisterà le azioni da Pincar). I dettagli finanziari dell’operazione sono l’unico elemento di novità di ieri, perché il destino di Pininfarina e il nome del compratore erano noti da diversi mesi e perché il gruppo industriale italiano era alle prese con una situazione economica e finanziaria complicata.



Il calo spettacolare delle azioni nella giornata dell’annuncio, -68,8%, è sintomo probabilmente della modesta capitalizzazione e dello scarsissimo flottante che forse non hanno aiutato la formazione di un prezzo ragionevole. La quota di controllo costerà a Mahindra “appena” 25 milioni di euro, poi ci saranno i soldi per l’opa (pochi milioni) e infine un aumento di capitale da 20 milioni; la società aveva chiuso i nove mesi con un reddito operativo negativo e con un debito netto di 42,5 milioni di euro.

Il risalto mediatico dell’annuncio non trova grandi corrispettivi nella dimensione finanziaria o borsistica dei numeri coinvolti; il marchio Pininfarina però trascende i calcoli economici e come pochissimi altri rappresenta la storia del made in Italy e dei suoi successi e ne esemplifica in un certo senso se non la fine almeno la crisi conclamata. Passa di mano, a favore di un gruppo indiano che probabilmente ai più dice pochissimo, un’icona dell’industria italiana oltre tutto a conclusione di una storia recente costellata di difficoltà industriali; nessun gruppo industriale italiano si è fatto avanti nonostante le cifre necessarie non fossero affatto proibitive, soprattutto in una fase di finanza facile per tutti.

Parlare di Pininfarina significa però parlare di un ormai lunghissimo elenco di società del made in Italy passate di mano e vendute ad azionisti non italiani; in questo elenco ci sono società che valgono molti miliardi di euro, che occupano migliaia di persone, che rappresentano il cuore dell’industria italiana spesso presenti in settori altamente tecnologici con know-how non replicabili. Alcuni dei tanti nomi: Ansaldo Sts, Ansaldo Breda, Indesit, Pirelli, Sorin, Bulgari, Parmalat, Italcementi, World Duty Free, oltre ad aeroporti, banche e assicurazioni, ecc. Ormai è un esodo biblico spesso accompagnato da pessime ricadute occupazionali e irrimediabili perdite di tecnologia.

Le cause sono molteplici, ma è impossibile non rilevare la totale incapacità del sistema Paese di tutelare le proprie imprese e le condizioni complicatissime in cui competono le imprese in Italia. Oggi un’impresa italiana compete in un sistema burocratico e giudiziario bizantino, inefficiente e costosissimo che non ha subito neanche la metà della metà delle riforme che sono passate nel settore privato. La decisione più facile è sempre vendere tutto. Il sistema decide di non intervenire per tutelare alcuna imprese di alcun settore industriale o finanziario, fatte salve ovviamente le Rai e le Rai Way di questo mondo per cui bisogna imporre canoni obbligatori e per cui si erigono barricate senza senso; enti pubblici rimangono in vita intatti mentre le imprese scappano anche per evitare tasse e burocrazia fuori da ogni logica.

Mentre parliamo di Pininfarina ci si dimentica che il controllo dell’ex monopolista telefonico è passato da qualche mese nelle mani di un gruppo francese, ma nessuno lo dice e nessuno segnala che l’equivalente sarebbe impensabile in Francia o in Germania mentre da noi anche Enel è contendibile. Buona parte del sistema bancario italiano è contendibile in una misura che non ha similitudini nel resto d’Europa e che non verrebbe mai permessa.

Possiamo però consolarci ridicendoci che è un buon segnale e che i mercati sono tornati ad avere fiducia nell’economia italiana. È una storia che sa tanto di beffa e a cui ormai non crede più nessuno con il debito pubblico in salita, la disoccupazione a due cifre e il Pil allo zero virgola nonostante anni di politiche monetarie ultra espansive. Non si capisce chi debba o possa assumere i milioni di disoccupati rimasti quando tutto viene immolato sull’altare della burocrazia e dell’apparato statale (o delle mance elettorali) o su quello del “mercato” che troppo spesso coincide con speculatori, finanzieri “speciali” o spoliazioni più o meno conclamate di know-how, tecnologia e occupazione.