Per la prima volta dal 29 giugno 2006, la Fed ha deciso ieri di alzare i tassi di interesse; l’incremento dello 0,25% era largamente atteso dagli investitori e pochi giorni prima della decisione di ieri il mercato scontava con una probablità di poco più dell’80% il rialzo. Il 20% di probablità dell’ennesimo rinvio rifletteva le preoccupazioni per il crollo dei prezzi delle materie prime, le difficoltà di alcuni importanti Paesi emergenti e delle loro valute e infine l’indebolimento e le fragilità diffuse in buona parte dell’economia globale a partire dalla Cina; in pratica ci si domandava quanto e se la Fed avrebbe preso in considerazione i fattori esterni all’economia americana, le spinte deflattive e le criticità presenti nei mercati finanziari, per esempio nelle obbligazioni ad alto rischio, oltre che il rafforzamento del dollaro su tutte le altre valute. Tali questioni sono state affrontate dal presidente della Fed Yellen sia nelle dichiarazioni iniziali che nella conferenza stampa con cui si è cercato di comprendere meglio il messaggio della Banca centrale Usa.

La Fed ha ricordato i consistenti miglioramenti dell’economia americana e del suo mercato del lavoro con 2,3 milioni di posti di lavoro creati finora nel corso del 2015 e il tasso di disoccupazione sceso a novembre al 5%; i dati si accompagnano a un tasso di partecipazione al lavoro ancora sotto le attese, a un numero di lavoratori part time “involontari” elevato e a un tasso di crescita dei salari ancora poco sostenuto, ma lo stato del mercato del lavoro americano mostra ormai indubbi e sostanziali progressi. L’inflazione invece rimane ancora sotto all’obbiettivo del 2%, ma la Fed ha sottolineato come parte di questo andamento sia spiegabile con fattori transitori tra cui il crollo delle materie prime e del prezzo del petrolio.

Nonostante un’inflazione inferiore agli obiettivi, la Fed ha deciso che ritardare ulteriormente la normalizzazione dei tassi avrebbe potuto generare il rischio di un percorso di rialzo dei tassi troppo brusco e di una conseguente nuova recessione. Fatte queste premesse, la Fed ha precisato che l’importanza di questo rialzo non deve essere esagerata, dato che la politica monetaria rimane accomodante e che gli incrementi dei tassi saranno graduali.

Nella conferenza stampa Janet Yellen ha avuto modo di ripetere e sottolineare allo sfinimento la prudenza della Fed che a fronte di un piccolo aumento dei tassi dopo 9 anni dall’ultimo e di attese di moderati rialzi rimarrà estremamente attenta nel monitorare la crescita economica, l’andamento dell’inflazione e le conseguenze sui mercati finanziari delle proprie decisioni. Non esiste un percorso meccanico di rialzi che verrà seguito indipendentemente dal contesto e questo, insieme a tassi ancora eccezionalmente bassi, dovrebbe far venire meno le preoccupazioni che si erano fatte strada sui mercati nelle ultime settimane, in particolare sul lato delle evidenti fragilità ancora presenti sui mercati finanziari.

La reazione dei mercati dopo la fine della conferenza stampa sembrerebbe confermare la sensazione che la “rete di sicurezza” contro improvvisi shock economico-finanziari non è venuta meno. Un ulteriore rinvio del rialzo avrebbe forse confermato le paure più inconfessate degli investitori sul reale stato del sistema finanziario e avrebbe probabimente minato completamente la credibilità della Fed.

Le incognite oggi presenti sui mercati sono molteplici e di primaria importanza: economia cinese, materie prime, mercati emergenti con in testa il Brasile, tensioni geopolitiche, criticità nei mercati finanziari, ecc. Questo basta per il momento per sconsigliare cambi repentini o sostanziali della politica americana della Fed, ma è chiaro che se tutto va bene alla fine di un percorso che può essere più o meno lungo c’è sempre un livello di tassi normale e sensibilmente più alto di quello attuale.

A questo riguardo fa sempre una certa impressione leggere a fronte di quali dati economici venga mostrata questa prudenza e flessibilità. La Fed ieri ha aggiornato le proprie previsioni per il 2016 alzando la stima di Pil al 2,4% dal precedente 2,3% e abbassando quella dell’inflazione dall’1,7% all’1,6%, mentre il tasso di disoccupazione è visto nel 2016 al 4,7% dal precedente 4,8%. Sono condizioni economiche che l’Europa in questo momento può solo sognare, mentre l’Italia per ora non può neanche permettersi questo lusso.

Chi si chiede cosa abbia fatto veramente l’Italia dal fallimento di Lehman per risolvere i propri problemi strutturali non può non preoccuparsi perché il sistema burocratico-statale-giudiziario è lo stesso del 2007. Molto probabilmente c’è ancora tempo, ma il rialzo di ieri ricorda che questo margine, per quanto ancora considerevole, non è affatto infinito.