Ieri il prezzo del petrolio ha toccato i minimi degli ultimi sei anni dopo tre giorni di cali consecutivi; trovare il colpevole non è particolarmente difficile perché, come da previsioni, venerdì l’Opec (in particolare l’Arabia Saudita) ha deciso di non tagliare la produzione nonostante il prezzo fosse già a meno della metà rispetto a poco più di un anno fa. La prossima riunione in calendario dell’Opec è prevista solamente a giugno del 2016 e quindi, guerre o eventi “catastrofici” esclusi, non c’è niente che nel breve possa far cambiare segno a una discesa che continuna da più di un anno, mentre il mercato rimane in squilibrio e in sovraproduzione; sul lato dell’offerta, quindi, non ci si possono attendere tagli anche considerando i tentativi dell’Iran di riguadagnare le quote di mercato perse con l’introduzione delle sanzioni, mentre sul lato della domanda, di nuovo, non ci si possono attendere aiuti o soprese positive con una crescita globale anemica, la crisi conclamata di alcuni Paesi emergenti (per esempio, il Brasile) e le questioni aperte sulle reali condizioni economiche della Cina. Questo è probabilmente lo scenario che si è aperto venerdì e che è stato fatto proprio dagli investitori, che non hanno visto nel breve alcun “fondo” su cui rimbalzare ed è questa la ragione del -15% circa di ribasso in tre gioni di mercato aperto scarsi.
I prezzi visti ieri ci riportano ai mesi di fine 2008 e inizio 2009, quelli per intenderci immediatamente successivi al fallimento di Lehman Brothers e al crollo dei mercati finanziari. La crisi di sette anni fa ha molto poco a che fare con quella attuale. Dopo la crisi Lehman a dominare le analisi e le riflessioni era la domanda di petrolio colpita dalla crisi economica, oggi invece, seppur in un contesto economico con più di qualche elemento di preoccupazione, non ci si attendono imminenti o traumatici elementi di rottura nei trend di lungo periodo della domanda di petrolio. Nonostante le crisi non abbiano elementi in comune, è comunque significativo che i prezzi attuali siano quelli raggiunti dopo la più grave crisi finanziaria degli ultimi 100 anni o quasi; allora il ribasso dei prezzi era uno dei sintomi di una gravissima crisi economica e finanziaria e in questo senso non si può pensare che quanto stia succedendo sia “normale” e che non debba essere considerato un elemento di preoccupazione. Le ramificazioni di 14 mesi di prezzo del petrolio in calo e delle attese, giuste o sbagliate che siano, di almeno altri sei mesi di prezzi particolarmente bassi non sono banali.
Potremmo limitarci a “contare” i benefici dei risparmi sul pieno dei consumatori, del calo delle bollette di famiglie e imprese considerando la particolare situazione di un Paese, l’Italia, che non ha risorse naturali, ma questi conti funzionerebbero bene in una situazione normale in cui i cali non sono così grandi e così veloci. C’è più di un elemento da prendere in considerazione oltre ai mitici risparmi sul pieno.
Si può ovviamente partire dalle imprese che sul petrolio lavorano e con cui pagano decine di migliaia di stipendi; l’Italia, per esempio, è un big globale nel settore petrolifero con Eni, Saipem che ha pochissimi competitor e altre decine di imprese, anche quotate, che vivono da decenni. Negli Stati Uniti un intero settore, quello della produzione, è in ginocchio e si è arrivati al punto, completamente controintuitivo, di società aree americane che hanno attribuito i profit warning ai minori viaggi degli addetti del settore; controintuitivo perché storicamente le compagnie aree sarebberro tra le società che più beneficiano di un calo del prezzo del petrolio. Le conseguenze sull’industria petrolifera di un calo così pronunciato e così veloce sono state e continuano a essere traumatiche e non si può pensare che decine di migliaia di lavoratori e centinaia di imprese si possano reinventare dall’oggi al domani.
Le altre vittime di questa crisi sono i Paesi produttori, spesso economie emergenti che al momento non hanno grandi alternative; il Brasile, per esempio, o la stessa Russia, vittima di una svalutazione del rublo che a questo punto ha pochissimo a che fare con le sanzioni. Poi ci sono i Paesi del Medio Oriente. La questione è immediatamente globale e non riguarda solo qualche negozio di via Monte Napoleone nella misura in cui scompaiono, dall’oggi al domani, decine di miliardi spesi e investiti a queste latitudini. Due settimane fa, infine, una delle più grandi società di rinnovabili europee quotata sul listino principale di Madrid, Abengoa, ha sostanzialmente annunciato l’inizio di una procedura di insolvenza dando via a quella che potrebbe essere la maggiore bancarotta spagnola. I progetti di energie rinnovabili immaginati quando il petrolio stava a 100 oggi probabilmente non funzionano più molto bene con il principale competitor, gas e petrolio, a meno della metà di dodici mesi fa. Il crollo del prezzo del petrolio con questa rapidità è nella migliore delle ipotesi una spia rossa accesa nel recupero dell’economia globale.