Ieri a pagina 2 del Financial Times, proprio accanto ai quotidiani aggiornamenti sulle trattative tra Grecia e Germania su un nuovo piano di rientro del debito, compariva un articolo sugli effetti positivi per l’economia italiana della recente, e consistente, svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro. L’articolo prendeva le mosse da alcune dichiarazioni del ministro dell’Economia Padoan riguardo al fatto che il cambio euro/dollaro attuale sia più “fondamentale” e “coerente” e che il Quantitative easing della Bce produrrà effetti positivi nei prossimi 18 mesi. Le stime ricordava l’FT indicano che l’Italia (la terza economia dell’area euro) avrà nel 2015 la prima crescita dopo tre anni di recessione, mentre, evidenziava sempre il quotidiano della city, le industrie manifatturiere e dell’alimentare italiane, dipendenti dalle esportazioni, beneficeranno della svalutazione dell’euro. Infine, tra i venti in coda per l’economia italiana ci sarebbe anche il calo del prezzo del petrolio. Insomma, tutto cospira a favore dell’Italia e della sua ripresa economica e dopo tre anni di incubo questa volta non c’è spread che tenga. La pressione quindi è tutta sull’Italia che non ha più scuse.



In realtà, a questo scenario si aggiunge un’altra dichiarazione di Padoan sul fatto che le riforme strutturali erano necessarie sia a livello europeo che nazionale. A questo punto il Financial Times cita un recente report dell’Ocse che evidenza come il processo di riforme abbia perso impeto e che questo sia “la preoccupazione più importante”. La Spagna invece “svetta” per essere quella che “si è mossa più velocemente e si è preparata meglio per uscire dalla crisi”.



Per riassumere: un articolo che inizia spiegando che tutto cospira a favore della ripresa italiana, finisce con un richiamo alla necessità delle riforme e i complimenti alla Spagna. Sentirsi addosso un po’ di pressione è il minimo e leggere una sorta di richiamo all’Italia non sembra per niente fantasioso. Sui “mercati” è tornata la moda dell’Europa periferica, esattamente come nella primavera del 2014, e gli strategisti delle banche d’affari suggeriscono di “sovrapesare” un’area che in teoria avrebbe grandi margini di miglioramento e recupero dopo anni di recessione.

È chiaro però che non è un +0,5% di Pil che può cambiare la situazione, né ci si può accontentare del fatto che le cose siano andate talmente male negli anni passati che in una situazione generale ed esterna oggettivamente migliore rispetto a quella dello spread a 550 ci sia un accenno di rimbalzo quasi inevitabile. Per passare dal +0,5% a una ripresa vera che cambi realmente i numeri dell’economia, inclusa la disoccupazione, serve però molto altro. Serve che ci siano le riforme a livello europeo e a livello nazionale come ricorda il nostro ministro dell’Economia. Da inizio gennaio la riforma più “forte” prodotta dall’Italia in campo economico e finanziario è il progetto di trasformazione delle banche popolari (a molti è sembrato anche un regalo ai soliti noti). I compiti che puntualmente ci vengono ricordati dalle agenzie di rating a ogni aggiornamento del giudizio sul debito italiano rimangono sostanzialmente inevasi.



Burocrazia, giustizia, amministrazioni pubbliche fuori controllo, rigidità del mercato del lavoro, tassazione inefficiente rimangono sostanzialmente identiche alla situazione del 2007 e non si nota una particolare urgenza o “cattiveria” nell’affrontare i problemi. Nel mentre rimangono inevase alcune “riforme” ugualmente necessarie come quelle relative alla rete a banda larga su cui nessuno investe. I richiami dell’Ocse sembrano ancora più opportuni proprio perché questa volta l’ambiente esterno è molto meno ostile rispetto al passato e il nuovo scenario non sfugge a nessuno.

L’ottimismo per l’Italia a cui questa volta sono toccate carte migliori viene moderato dal timore dell’ennesima occasione persa e non c’è svalutazione dell’euro o spread minimo che possano fare la parte che tocca all’Italia né dentro ai confini, né in Europa.