In una giornata finanziaria abbastanza anonima in cui il mercato ha chiuso, come non si vedeva da molto, con un calo di circa l’1%, la borsa di Milano ha regalato un piccolo grande giallo. Piccolo per la durata, un’ora, grande perché ha riguardato la più grande società quotata italiana, Eni. A mercato aperto, infatti, le agenzie riportavano la seguente dichiarazione del vice ministro allo sviluppo economico Claudio De Vincenti su Eni: “Il punto è che deve rimanere una partecipazione di riferimento del pubblico: sono aziende strategiche, comunque, faremo quanto già fatto su Enel anche per Eni”. L’interpretazione è stata ovviamente che il governo intendesse mettere sul mercato una quota di Eni così come è avvenuto per Enel alla fine di febbraio. Lo Stato italiano controlla poco più del 30% di Eni (il 25,76% attraverso la Cdp e il 4,34% direttamente) e, dopo la vendita del 5,7%, il 25,5% di Enel; per questo la dichiarazione di De Vincenti sembrava decisamente avere una e una sola interpretazione possibile secondo cui lo Stato italiano avrebbe ridotto la partecipazione in Eni allo stesso livello di quella di Enel.
Nel giro di un’ora dalla dichiarazione interpretata dalle agenzie opportunamente e come chiunque avrebbe compreso, veniva diffuso sia un comunicato del vice ministro che parlava di “misunderstanding” (fraintendimento) e in cui diceva di essersi solo riferito alla vendita di Enel, sia un comunicato del ministero dell’Economia che precisava che non è prevista la collocazione di quote Eni sul mercato. Sicuramente sarà stato un “misunderstanding”, la parola avrebbe un equivalente italiano ma questa è un’altra storia, però il fraintendimento è stato davvero sfortunatissimo perché a due settimane dal collocamento di Enel, e considerando che oggi il governo possiede il 25% di Enel e il 30% di Eni, dare qualsiasi altra interpretazione avrebbe richiesto un esercizio di fantasia e immaginazione proibitivo per non dire impossibile. In generale, in ogni caso, certe dichiarazioni a borsa aperta sulla prima società quotata italiana in una fase del mercato del petrolio piuttosto complicata forse sarebbe il caso di evitarle. Non è solo un’osservazione ma anche un auspicio, perché è già la seconda volta in poche settimane – la prima è stata con il decreto sulle popolari – che notizie assolutamente “price sensitive” su società del Ftse Mib di dimensione ragguardevole escono da ambienti governativi, se così si può dire, a borsa aperta. Se rispetto per il mercato deve essere, questo sarebbe l’abc.
Ovviamente però il punto è un altro; dopo la cessione del 5% di Enel e sotto la quota di controllo di fatto del 30% di un’azienda palesemente “strategica” non si capisce in linea teorica perché Eni dovrebbe essere diversa. Si tratta, infatti, di società ugualmente strategiche, ugualmente solide e ugualmente ottime pagatrici di dividendi. Se il 25% “va bene” per controllare Enel e per assicurare che risponda agli interessi strategici dell’Italia allora “va bene” anche per Eni. La discesa sotto la soglia del 30% di Enel, passata in silenzio tra un rialzo e l’altro, non ha un significato meramente contabile perché il governo, anzi nessun governo, potrà più considerare di ritornare sopra il 30% senza dover lanciare un’Opa mentre, in teoria (ma neanche troppo), chiunque potrebbe raccogliere il 29,9% e andare in assemblea a prendersi il controllo.
Facciamo comunque che queste siano eventualità impossibili e inimmaginabili, rimane comunque il fatto che in un mondo che ha fame assoluta di asset reali e dividendi e in cui il debito non costa più nulla nemmeno su scadenze lunghissime il governo italiano è rimasto l’unico a vendere. A nessuno importa più nemmeno del debito, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai oggi con un’economia molto peggiore di quella del 2010 e un debito più alto lo spread stia dove stia. L’operazione da un punto di vista finanziario è totalmente irrazionale per il semplice fatto che ci si priva di un titolo che produce dividendi per chiudere un debito che costa un decimo.
Non solo, del debito non importerà nulla a nessuno se il Pil crescerà, ma per crescere bisogna investire e non c’è neanche da discutere se l’investitore finanziario sia più o meno propenso a farlo di uno “industriale”: per l’investitore finanziario l’annuncio di aumento degli investimenti è sempre un buon motivo per vendere.
L’Italia sta vendendo tutto in un mondo che compra e in un mondo che è disposto letteralmente a strapagare per competenze, tecnologie e società reali. Il debito italiano può, forse, solo essere scalfito in un orizzonte temporale di medio periodo, ma a chi importa davvero se il debito su Pil è al 130% o al 125%? Importa invece molto se l’economia sottostante sale o scende. Oggi tutto va bene e i mercati salgono, ma la verità è che il debito è garantito dall’economia e dagli asset che non crescono e vengono messi sul mercato per la gioia di compratori che non si capacitano di così tanta fortuna.
Tanto per non fare nomi e cognomi, quanti sono gli stati al mondo con società in grado di estrarre petrolio in mezzo all’Artico? Meno di una decina? Quanto valgono quindi in un’ottica strategica? Uno di questi stati è l’Italia. Per il momento.