I “rumour”di Opa su Pirelli sono continuati anche ieri, con il titolo in rialzo di più del 2%; i giornali concordano nel ritenere che verrà lanciata un’Opa con il supporto di China Chemical Corporation e che dopo il delisting verrà riquotata solo la parte “consumer”, mentre la divisione industrial (gli pneumatici per i camion) verrà fusa nella società cinese. Indipendente dall’esito, non ancora certo, è molto concreta la possibilità che la Pirelli che verrà riquotata dopo l’Opa sia solo una parte di quella che viene scambiata oggi sul listino.
L’elenco delle società industriali che hanno lasciato la borsa italiana, si apprestano a farlo o che non hanno più a Milano il listino principale è diventato particolarmente lungo: Gtech/Lottomatica, Ansaldo Sts, Indesit, Fiat, Cnh, Wdf, Bulgari, Diasorin e siamo sicuri di essercene dimenticate altre. Poi ci sono le società italianissime che invece non ci hanno mai neanche pensato come Prada (quotata a Hong Kong) e persino la quintessenza dell’italianità nel mondo come Ferrari (il mercato di quotazione principale sarà negli Stati Uniti).
Le ragioni sono diverse e si va dalla mera vendita a una società estera da parte dell’azionista di riferimento alla volontà di avere un regime fiscale più favorevole e un’amministrazione più efficiente, fino semplicemente all’esigenza di essere quotati su una piazza più prestigiosa che garantisca più visibilità. La prima ragione solleva una questione sul futuro industriale del Paese, ma, sinceramente, anche le ultime due motivazioni dovrebbero far riflettere. Per ottenere un regime fiscale più favorevole non occorre andare in qualche paradiso fiscale dal nome esotico, ma basta andare a Londra o fermarsi in Olanda. È anche chiaro che nessuno vorrebbe, potendo, avere a che fare con l’amministrazione pubblica e giudiziaria italiana (hanno dimostrato di essere irriformabili anche dopo sette anni di recessione), mentre la ricerca di un maggiore “prestigio” finanziario viene alimentato da una sorta di circolo vizioso.
La questione, dicevamo, non dovrebbe lasciare indifferenti, primo perché la borsa è comunque una vetrina e il simbolo dell’economia di un Paese e in questo caso è difficile non percepire un messaggio da ritirata disordinata e si salvi chi può in cui in sostanza chi ha la possibilità scappa a gambe levate da un Paese in crisi e in cui tutto l’apparato pubblico è rimasto tale e quale al 2007. In una fase complicata come quella attuale le sirene della minore tassazione sono irresistibili per chi può trasferire la sede.
Porsi il problema di evitare che questo flusso continui, soprattutto ai ritmi attuali, sarebbe il minimo e ci si dovrebbe chiedere quale debba essere la risposta in termini di tassazione e semplificazione burocratica. La decisione di fondere la borsa italiana con quella di Londra e poi quella successiva delle banche italiane di vendere le proprie quote si sta rivelando pessima dal punto di vista del sistema Paese ed è davvero difficile non mettere in relazione, almeno in parte, quanto sta succedendo con quella fusione e successiva vendita.
L’altra questione che meriterebbe di essere sollevata, soprattutto da un governo impegnato a rilanciare la crescita, è quella del destino dell’industria finanziaria italiana. Questa industria, grazie all’ancora enorme risparmio degli italiani, potrebbe sicuramente contribuire molto di più al Pil italiano. Oggi invece i risparmi degli italiani vengono gestiti in Irlanda, Inghilterra, Francia o Svizzera e lì pagano stipendi e tasse anche perché è possibile godere di una tassazione più favorevole; è inutile fare proclami contro spostamenti perfettamente legali e impossibili da evitare anche per uno Stato comunista: servirebbero solo grande buon senso e decisioni pragmatiche.
Il fatto che il listino italiano si stia svuotando alla velocità della luce di certo non aiuta a giustificare il mantenimento in loco di società di gestione. Se per stare dietro al titolo Ferrari bisogna andare a Londra o al principale concessionario del gioco italiano a New York non si può pretendere che ci sia un’industria finanziaria in Italia.