Ieri il titolo Pirelli ha sorpassato il prezzo di 15,50 euro, un “dettaglio” che non può rimanere confinato alle scrivanie degli investitori visto che potrebbe anche essere la conseguenza di una scommessa degli investitori su una “contro opa” sul produttore di pneumatici. Mentre si assiste al cambio degli assetti proprietari di un titolo del Ftse Mib, nonché di una delle maggiori società industriali quotate alla borsa di Milano tra opa e contro opa di società statali estere, il titolo Pininfarina ha messo a segno un rialzo superiore al 25% sui rumours di acquisizione di una quota di maggioranza da parte della società indiana Mahindra.
Il listino di Milano appare sempre di più come una gigantesca vetrina dove chiunque può comprare qualsiasi cosa, ma soprattutto competenze che sono il cuore di un sistema industriale e di un’economia, senza che nessuno abbia niente da dire. Quello a cui si sta assistendo sarebbe impensabile nelle borse dei nostri principali competitor europei come Francia e Germania e impossibile in Cina.
Non si tratta ovviamente di partecipazioni finanziarie che hanno attaccate attese di crescite di utili o di dividendi, ma di acquisizioni di tecnologia e competenze non replicabili. Immaginiamo che non sembri vero a una società di un’economia in via di sviluppo avere la possibilità di accorciare gap competitivi con paesi sviluppati semplicemente buttando una manciata di euro in una fase di interessi a zero. Per il governo cinese che controlla la ChemChina che lancerà l’opa su Pirelli l’esborso è molto relativo, soprattutto se si scambia carta con un asset reale che rappresenta uno dei pochissimi leader mondiali nel mercato degli pneumatici con un patrimonio di conoscenze, competenze e marchio non replicabile in alcun modo.
Il governo italiano rende contendibile Enel, vende tramite Finmeccanica Ansaldo Sts e Ansaldo Breda (mai Raiway non si tocca ovviamente), società industriali passano di mano con il controllo spostato per sempre dall’Italia: Indesit, Pirelli, Sorin sono le ultime di una lunga serie a cui presto si aggiungeranno Pininfarina e probabilmente Fiat. Anche un quarto del sistema bancario italiano, quello legato alle popolari, è stato messo di fatto in vendita dal Governo ed è liberamente acquistabile senza che prima si sia nemmeno cercato di creare un qualche nocciolo duro di azionisti italiani.
Ogni caso ovviamente ha una propria specifica storia e magari delle proprie ragioni, ma è chiaro a tutti ormai che il fenomeno ha assunto una dimensione che trascende il caso singolo e che dipinge uno scenario da grandi svendite, liberi tutti e si salvi chi può. Si salvi insomma chi può vendere Italia e mettersi al sicuro da qualche parte, perché tanto la crescita in Italia non c’è e non ci sarà (lo 0,2% di crescita di Pil del primo trimestre stimata da Confindustria è un incremento meramente contabile) e non c’è nemmeno nessuna prospettiva di medio lungo termine.
Non conviene produrre, “pensare” e investire in Italia perché il sistema fiscale e la burocrazia lo impediscono. Ricordava ieri il Financial Times che in media in Italia servono quattro anni per far rispettare un contratto. La politica industriale che non si fa in Italia si fa invece nel resto del mondo che vuole crescere.
Ricordiamo di nuovo che ChemChina che farà l’opa su Pirelli non è una società privata di qualche imprenditore di successo, ma è una società statale cinese. Oltre al fatto che sarebbe impensabile per una società statale italiana comprare una società cinese (o europea) e che questa società verrà sostanzialmente “tolta dal mercato” per sempre occorrerebbe chiedersi perché lo Stato cinese decide di fare questa operazione e perché invece lo Stato italiano neanche se ne occupi direttamente o indirettamente. Occorrerebbe chiedersi perché il governo italiano non voglia fare politica industriale in nessun modo e in nessun senso e perché non voglia o non riesca a risolvere il problema di una burocrazia che ucciderebbe anche chi si presentasse con le migliori intenzioni.
Sottolineava ieri il Financial Times che i problemi europei, in particolare anche dell’Italia, non si risolveranno fino a che non si farà ripartire la domanda e che questo è un aspetto non meno importante di quello delle riforme strutturali. È lecito chiedersi chi farà e perché investimenti in Italia perché il governo italiano vende e basta mentre è chiaro che il governo cinese, piuttosto che gli indiani e gli americani ragionano o con logiche di profitto finanziario, e l’Italia non offre neanche per sbaglio le condizioni di lavoro cinesi o delle altre economie europee con burocrazie efficienti e sistemi fiscali chiari e premianti per chi innova, o con quelle di “sistema Paese” in cui il Paese che deve beneficiare non è di certo quello italiano. In tutto questo ci si sorprende perché il Pil del primo trimestre “delude”…