Ieri il cda di Rcs ha deciso di proporre a Mondadori, in riferimento alla proposta di acquisizione di Rcs Libri, un periodo in esclusiva fino al 29 maggio “al fine di approfondire termini e condizioni dell’eventuale operazione, riservandosi ogni conseguente valutazione nel merito”. Il 18 febbraio Mondadori comunicava, dopo una serie di rumours, di aver presentato un’offerta per Rcs libri: la notizia aveva provocato reazioni preoccupate, se non vere e proprie “sollevazioni”, per il pericolo che la nuova società post fusione avrebbe determinato per la libertà nel settore editoriale. La nuova società avrebbe, infatti, circa il 40% del mercato dei libri.
Il voto del “mercato” alla notizia che il cda di Rcs, a maggioranza, ha deciso di concedere un’esclusiva è stato decisamente chiaro: Rcs ha chiuso una giornata abbastanza anonima per il mercato (+0,16% il Ftse Mib) con un rialzo del +2,7%, mentre Mondadori, la società acquirente, addirittura con uno del 7,4%; i rialzi sono così anomali rispetto all’andamento generale del mercato che è impossibile non metterli in relazione con il comunicato stampa di Rcs sull’esclusiva.
Rcs è una società con un debito di circa 500 milioni di euro, dopo un aumento di capitale da oltre 400 milioni nel 2013, e un reddito operativo stimato per il 2015 dagli analisti di circa 135 milioni; i numeri dipingono una situazione in cui si impone una certa fretta nel finalizzare un piano di dismissioni che infatti il management sta portando avanti; la crisi ha presentato un conto molto alto al settore media (la pubblicità è probabilmente uno dei “costi” più facili da tagliare), mentre le innovazioni tecnologiche hanno fatto il resto.
Queste considerazioni saranno probabilmente molto fredde e poco sensibili rispetto al “brand” e a tutti i dibattiti sul futuro del giornalismo e la libertà d’espressione, ma è chiaro che alla fine ci sono dei conti e dei ricavi senza i quali non si pagano gli stipendi. A questo riguardo il primo elemento da prendere in considerazione, come azionisti di Rcs chiamati a rispondere di tasca propria dei successi e degli insuccessi economici e forse anche come dipendenti di una società “normale” che si preoccupano di debiti e ricavi, è se ci sia qualcuno oggi disposto a offrire quanto offre Mondadori e a garantire i dipendenti.
È probabile che nessuno possa offrire quanto Mondadori non perché la società “di Berlusconi” voglia mettere sul piatto una cifra folle per controllare l’opinione pubblica, ma perché nessuno può estrarre sinergie (le più evidenti sarebbero quelle sulla distribuzione) e gestire la società come chi opera già efficacemente da anni sul mercato italiano. Dal punto di vista strettamente industriale, al di là dei cognomi degli azionisti, l’operazione avrebbe sicuramente senso.
C’è poi un secondo elemento ed è quello della “strana” performance della società acquirente. Di norma chi vende sale e chi compra scende. In questo caso chi compra, Mondadori, è salita addirittura di più di chi vende, Rcs. La ragione non è assolutamente misteriosa tra investitori e analisti. I margini di Mondadori nel settore libri sono più del doppio di quelli di Rcs. Per una ragione o per l’altra i primi gestiscono meglio dei secondi. L’idea, in poche parole, è che Mondadori compri e paghi un certo reddito operativo e possa nel corso di qualche anno migliorarlo semplicemente gestendolo come già gestisce il suo business. Rcs, che certamente è a conoscenza di questa situazione, può ovviamente usarla a suo vantaggio per alzare il prezzo ma non fino al punto di far scappare un compratore che non sembra molto facilmente sostituibile, soprattutto a certe cifre.
Questa è la storia finanziaria di un’operazione, tra l’altro abbastanza modesta come dimensione nello scenario di mercato attuale, che ha enorme senso industriale per tutte le società coinvolte, sia per chi vende che per chi compra. C’è poi la storia “mediatica” che si concentra su quote di mercato e pericolo di monopolio. Il problema, però, viene affrontato, così ci pare, in modo poco comprensibile. Se la questione è un “semplice” problema di antitrust c’è un’autorità che se ne occupa che può decidere, per esempio, di obbligare la nuova società a cedere qualche marchio per riportare la quota di mercato entro una certa soglia; tutto questo, ovviamente, se si ravvisasse un problema sostanziale. Le discussioni però non sono state su problemi pratici, se esista o meno, cioè, una quota oltre la quale ci sia un allarme e se sì se questa quota sia 10, 20 o 40; la mancanza di dettagli così decisivi e fondamentali per una normalissima discussione su un problema di questo tipo fa sorgere più di un sospetto che la questione sia un’altra.
Nel fuggi fuggi generale a cui si assiste in Italia in cui dinastie imprenditoriali storiche vendono aziende sane per fare, sostanzialmente, i rentier non ci sembra che sia il caso di alzare barricate se c’è qualcuno che ha ancora voglia di investire; se ci sono problemi di antitrust o di “monopolio” si affrontano e si risolvono normalmente come avviene ovunque nel mondo. Se i problemi sono altri non è il caso neanche di iniziare a discutere. Altri editori televisivi in Italia sono incorsi in incidenti fuori dai confini (diciamo oltre la Manica) mille volte più seri e preoccupanti di quelli di cui si parla oggi senza che ci fosse un decimo del dibattito attuale su Mondadori e dintorni.
Ovviamente in caso di fallimento del deal ci aspettiamo che qualcuno, tra gli azionisti o i creditori, chieda conto e verifichi se per caso non esistono aziende più uguali delle altre con dipendenti più uguali degli altri.