Le elezioni regionali italiane non sembrano aver sconvolto particolarmente i mercati finanziari. La borsa di Milano ha chiuso ieri sostanzialmente invariata, -0,26%, dopo una giornata comunque ridimensionata per le assenze del ponte del 2 giugno. Anche dalle parti di spread e dintorni non si sono registrati movimenti particolari. I due principali quotidiani economici internazionali si sono “divisi” nel giudizio politico: per il Wall Street Journal l’esito elettorale di domenica è una vittoria di stretta misura per Matteo Renzi, mentre per il Financial Times i risultati sono una “battuta d’arresto” per il nostro giovane primo ministro. In entrambi i casi non si sono viste né vittorie, né sconfitte nette; soprattutto nessuno ha ritenuto di dover dedicare particolari analisi a caldo alle ultime evoluzioni delle vicende politiche italiane. Negli ultimi mesi l’Italia era invece abituata ad analisi decisamente più dettagliate e, volente o nolente, per diversi periodi è stata al centro dell’attenzione. Escludendo l’ipotesi di una colpevole negligenza da parte degli investitori si può cercare di capire la ragione di questa disattenzione.
Vale la pena fare qualche passo indietro, appena qualche giorno, per rimettere a fuoco il clima con cui ci si è preparati a queste elezioni. In sostanza, le votazioni sono state circondate da un clima di generale indifferenza. Nelle circostanze attuali l’andamento dell’economia italiana è sostanzialmente scorrelato dall’azione del governo. Il calo dello spread è un regalo della Bce di Mario Draghi, esattamente com’è in gran parte della Bce il merito dell’indebolimento dell’euro. Il calo del petrolio è altrettanto indipendente da qualsiasi azione possa aver messo o mettere in atto il governo. La liquidità rimane ancora abbondante sui mercati così come l’appetito per qualsiasi rendimento in una fase di ritorni nulli sui tradizionali investimenti a basso rischio. Preoccuparsi prima del tempo negli ultimi mesi poi non ha pagato sia in senso metaforico che letterale.
L’economia italiana, insomma, va con il pilota automatico; la crescita non c’è e la ripresa nemmeno, ma dati i presupposti di cui sopra si possono almeno escludere grossi scivoloni. Tanto basta per evitare nervosismi. Soprattutto per capire dove andrà l’economia italiana nei prossimi sei/dodici mesi bisogna e basta guardare allo scenario esterno.
Per il momento il governo italiano gode ancora di una certa dose di fiducia sui mercati e il giudizio è sospeso. L’articolo del Financial Times di venerdì scorso è stato in questo senso esemplificativo di un certo tipo di sguardo sull’Italia: la ripresa non c’è e non c’è niente che le assomigli veramente, il governo italiano ha fatto qualche riforma i cui effetti al momento sono ancora poco chiari, moltissimo è quello che rimane da fare.
Le elezioni di domenica non sembrano poter cambiare questa visione, né sembrano spostare i fattori che finora hanno determinato le sorti economiche italiane. Occorre aggiungere due considerazioni. La prima è che in un certo senso quello che è emerso dalle elezioni amministrative italiane era già stato preannunciato con le elezioni spagnole di due settimane fa. La seconda è che la partita più importante per l’economia italiana che si sta giocando in questo momento è quella sulle negoziazioni sul debito sovrano greco. Se l’Italia sta andando, da un punto di vista economico, col pilota automatico, quello che conta è che non cambino le condizioni esterne. La convinzione, giusta o sbagliata che sia, dei mercati è che in qualche modo anche questa volta si riuscirà a evitare il problema.
Le elezioni interessano in modo limitato perché il mercato sta guardando da un’altra parte e perché ha deciso che non è il momento di preoccuparsi. Quello che interessa, in sostanza, è che in Italia non succeda niente che possa cambiare il contesto generale europeo; e sicuramente qualsiasi cosa sia successa domenica non cambia il quadro dell’eurozona o dell’Europa.
Che questo sia anche lo sguardo più opportuno al di qua delle Alpi è invece tutta un’altra storia. L’economia italiana rimane estremamente fragile, fare impresa rimane ancora difficilissimo e le riforme più delicate sono ancora tutte da fare. Per il momento ci si accorge di questo “solo” in Italia, con una disoccupazione ferma ai massimi; ma in altri contesti, per esempio di maggiore volatilità esterna, siamo sicuri che se ne accorgerebbero facilmente anche tutti gli altri e che non sarebbe particolarmente difficile trovare pretesti per puntare il dito “contro” l’Italia; che non si preoccupino o non si interessino i mercati non è affatto una buona ragione per pensare che vada tutto magnificamente.