I mercati finanziari ieri non hanno decisamente risparmiato “emozioni”; la cronaca finanziaria della prima giornata post annuncio del referendum in Grecia e relativa rottura delle trattative è iniziata come da prevedibilissimo copione con i titoli di mezzo listino di Milano, giusto per fare un esempio, che non riuscivano neanche ad aprire, ed è finita ai minimi di giornata con un calo del 5,17%. La giornata, iniziata malissimo, sembrava a un certo punto potesse perfino finire senza tragedie con il mercato che a metà pomeriggio segnava un tutto sommato poco spaventoso -3%.
Le dichiarazioni arrivate a mercati aperti, per esempio quelle di Angela Merkel, sembravano lasciare intendere che ci fossero ancora spazi di manovra per arrivare a una soluzione condivisa tra Grecia e creditori che eviti il default e l’uscita dall’euro. Royal Bank of Scotland evidenziava in un report come le vere scadenze fossero il 14 luglio (primo pagamento di un debito al settore privato) e il 20 luglio (scadenza delle obbligazioni detenute dalla Bce). Morgan Stanley alzava la probabilità di un’uscita dall’euro della Grecia dal 45% al 60% sposando uno scenario in cui le probabilità che la Grecia rimanga nell’euro sono ancora tangibili.
Le buone notizie finiscono però qua. È chiaro che la distanza tra le parti è sensibilmente aumentata; notava Citigroup come anche una vittoria dei sì, se poco convincente, potrebbe mettere in difficoltà il governo greco. Sembra soprattutto chiaro al mercato che, a questo punto, una soluzione positiva non possa prescindere da un cambiamento sostanziale della linea d’azione europea e che quindi occorra un salto in avanti su cui è molto difficile scommettere. Sempre secondo Citigroup, “a meno che ci sia un cambio del governo in Grecia (o un netto cambiamento di vista tra le istituzioni) scivolare verso l’uscita della Grecia dall’euro potrebbe essere molto probabile, anche se ci potrebbe volere molto tempo”. Barclays invece concludeva con queste parole: “Crediamo che le istituzioni europee dovrebbero rispondere a questo scenario con una forte agenda di riforme istituzionali”. Dato che la crisi greca si trascina da quasi sei anni e che ha già causato danni incalcolabili sia ai greci che all’Europa è davvero difficile essere particolarmente ottimisti.
Il secondo elemento di preoccupazione è l’impatto che le vicende di questi giorni possono avere, indipendentemente dagli esiti, sulla fragilissima ripresa europea e su quella puramente contabile italiana. Immaginiamo, per esempio, quale fiducia possa accordare un investitore globale a un’area che ha dato per l’ennesima volta prova di incapacità e inaffidabilità. L’Europa in quanto tale non è riuscita in sei anni a risolvere la crisi di una delle sue più piccole economie trascinandola al punto da mettere in discussione l’intera moneta unica e probabilmente perfino l’unione politica. In questo senso il danno rimane anche se la situazione si dovesse ricucire.
L’ultimo punto, forse il più importante, è quello relativo al “rischio contagio”. Negli ultimi giorni si sono sentite da autorevolissimi esponenti politici italiani e da ancora più rilevanti esponenti “finanziari” europei tesi secondo le quali l’Italia sarebbe stata al ripario da un contagio greco. Se dobbiamo giudicare dalla reazione di ieri, oltretutto in un clima ancora possibilista, possiamo già concludere che il rischio contagio è invece concretissimo.
Si può recuperare a questo proposito un report di Ubs di metà aprile nel quale si sosteneva che il rischio contagio fosse molto alto e che il canale di diffusione sarebbe stato una replica della corsa agli sportelli vista in Grecia. Se si ammette che un Paese può uscire dall’euro, per di più in modo disordinato, allora è chiaro che questa possibilità, finora teoricamente impossibile, può essere presa in considerazione per tutti gli altri paesi. E se questa possibilità fa capolino tra le paure dei risparmiatori può accadere, come in Grecia, che i risparmiatori dei paesi oggetto di pressioni finanziarie possano pensare che sia più sicuro avere euro fisici sotto il materasso piuttosto che in banca.
Quale sia il primo Paese che verrebbe messo nel mirino dopo la Grecia non è un esercizio particolarmente difficile. L’Italia nel 2011, per citare un indicatore tra i tanti, aveva un tasso di disoccupazione dell’8,4% e oggi del 12,4%. È davvero singolare, o forse surreale, che mentre il listino italiano sprofondava si leggevano notizie come la conferma del Gip di Taranto del sequestro dell’altoforno 2 all’Ilva, una vicenda che si trascina da quasi tre anni, al punto che i commissari valutavano se bloccare tutto il ciclo produttivo. L’Europa e la Germania hanno tantissime colpe, ma l’Italia si presenta a questo appuntamento con lo stesso identico apparato burocratico-statale del 2007 che ha resistito a qualsiasi richiesta di efficienza o snellimento, con in mezzo una stagione di grandi svendite industriali e tra poco finanziarie. Speriamo che non sia troppo tardi per iniziare.