Se volessimo adeguarci al gergo che normalmente viene usato in queste circostanze, dovremmo cominciare dicendo che “le borse hanno brindato all’accordo”, che “lo spread è sceso” e che gli “investitori approvano”; questa potrebbe essere la parafrasi più facile del +1% con cui ha chiuso ieri la borsa di Milano. Mentre, appunto, la borsa “festeggiava”, a mercati aperti Standard & Poor’s ribadiva lo scenario base di un’uscita della Grecia dall’area euro, aggiungendo che l’accordo di ieri ha “solo” ridotto il rischio che ciò succeda a breve, mentre nulla ha cambiato per l’inevitabile conclusione. L’analisi di S&P può essere presa come la sintesi più efficace dell’umore del mercato dopo l’accordo; lo scenario base rimane, nonostante o forse proprio per il tipo di accordo, quello di una inevitabile rottura dell’euro. Rimane quindi da risolvere l’apparente contraddizione di una borsa al rialzo nonostante la conferma di uno scenario di rottura dell’euro che da tutti gli analisti viene considerato come un evento traumatico impossibile da circoscrivere.
La contraddizione può anche essere inspiegabile, ma sicuramente non è una novità delle ultime 24 ore. I cambi del governo in Grecia, la vittoria di Tsipras e, soprattutto, il crollo senza fine della sua economia, arrivata a perdere dall’inizio della crisi un quarto del Prodotto interno lordo con un tasso di disoccupazione che oggi è superiore al 25% (quello giovanile arriva al 50%), hanno convissuto negli ultimi anni con diversi periodi di rialzo del mercato. La parabola dell’economia greca e i suoi inevitabili effetti politici non sono una novità delle ultime due settimane ed è evidente a chiunque abbia gli occhi per vedere che questi numeri non si possono affrontare e ribaltare con un aumento dell’Iva o con una diversa legislazione sui licenziamenti.
L’accordo di ieri ripropone in modo ancora più deciso, e violento, la stessa medicina che è stata amministrata alla Grecia negli ultimi 5 anni. Non si comprende chi possa davvero credere che dopo quello che è successo in Grecia negli ultimi mesi un surplus di austerity e il sequestro di qualsiasi bene statale di qualsiasi utilità possa invertire la rotta. Ma il destino del popolo greco, o europeo, interessa molto poco all’investitore di Londra o New York e tutte le considerazione sul futuro di medio-lungo termine dell’Europa e dell’euro scompaiono di fronte al fatto che probabilmente potremo tirare almeno fino al prossimo autunno.
Anche a noi interessa che siano stati rimandati almeno di qualche mese quegli scenari di rottura disordinata dell’euro con le tragiche conseguenze economiche che erano ormai diventata letteratura tra gli analisti. Nelle analisi di primarie istituzioni finanziarie e in molti quotidiani internazionali si può tranquillamente trovare quello che invece la stragrande maggioranza dei giornali italiani ha fatto finta di non vedere.
Scriveva ieri Bank of America Merrill Lynch, “l’uscita dall’euro è ormai ufficialmente qualcosa che può essere usato come minaccia per quelli che non si comportano come vuole la Germania”; per Barclays, “anche se un accordo viene raggiunto entro questo weekend è difficile immaginare che i prelievi dai conti correnti smettano”, “la mancanza di fiducia significa che i capitali che verranno iniettati con il salvataggio dell’Europa scompariranno immediatamente perché i correntisti continueranno a ritirare i fondi”. Krugman sul New York Times scriveva che l’accordo di ieri è “oltre il severo ed è pura vendicatività, la completa distruzione della sovranità nazionale senza speranza di sollievo”; “chi crederà ancora alle buone intenzioni della Germania dopo questo?”. Munchau sul Financial Times: “L’eurozona è stata degradata a un sistema di tasso fisso tossico con una valuta condivisa gestita nell’interesse della Germania e tenuta assieme dalla minaccia di distruzione totale per chi decide di sfidare l’ordine”.
È grottesco come ancora oggi si giustifichino performance economiche o finanziarie per il rispetto di rapporti di deficit/Pil che sono delle pure convenzioni che tra l’altro vengono rispettate “a seconda dei casi” in Europa, mentre fuori dall’Europa non significano niente per nessuno. Il rapporto deficit/Pil al 3% viene presentato come se fosse una legge fisica e si decide di applicarlo, nel caso greco, come se si stesse obbedendo a una legge divina, mentre la realtà è che le regole in Europa vengono “interpretate” in modo arbitrario e unilaterale. L’esposizione rilevante delle banche francesi e tedesche alla Grecia è stata spalmata su tutti gli altri stati europei allocandola anche a chi, come le banche italiane, si era tenuto fuori.
Se l’Italia disgraziatamente avesse un deficit al 3,01% invece che del 2,99% dovrebbe sorbirsi un incremento dell’Iva con le inevitabili conseguenze recessive? Non c’è nessuna razionalità o ragionevolezza nel voler continuare a osservare alcune convenzioni arbitrarie di una disciplina che certamente non è una scienza esatta, che si sono decise in un’epoca storica che ormai è solo un ricordo e che negli ultimi anni di crisi nessuno si è sognato di osservare: né in Cina, né negli Stati Uniti, né in Giappone o in Inghilterra. L’unica razionalità è quella di chi le vuole usare per mettere fuorigioco e dominare i concorrenti agitando lo spettro della Grecia per cui le ulteriori possibili punizioni (50% di disoccupazione giovanile…) sono ormai materia per sadici.
Il nostro primo ministro che ha scelto la Germania per convinzione o convenienza legge i principali quotidiani internazionali? Prima o poi però se non si cambia lo scenario attuale toccherà comunque anche a noi….