La presentazione di un “green paper” al Parlamento inglese sul futuro della BBC e in particolare sul suo attuale meccanismo di finanziamento ha suscitato un dibattito decisamente vivace su cui hanno scritto le principali testate di lingua inglese. Lo studio presentato giovedì ha affrontato quattro punti: quale sia l’obiettivo della BBC, quali servizi dovrebbe offrire, come dovrebbe essere finanziata e infine come dovrebbe essere regolata e governata. Il punto più controverso è stato, ovviamente, sul giudizio dell’attuale meccanismo di finanziamento (non molto difforme dal nostro canone) che è stato oggetto di alcune critiche sostanziali.
I punti di debolezza del “canone” per la BBC evidenziati nel paper sembrano infatti di grandissimo buon senso: il canone è uguale per tutti indipendentemente dal reddito e quindi penalizza di più i poveri; il canone non è correlato all’uso e quindi chi guarda poco la BBC paga come chi la guarda molto; il canone è relativo alla televisione e non solo alla BBC e quindi non c’è possibilità di scegliere per chi volesse rinunciare a guardare la BBC; il canone prevede sanzioni in caso di non pagamento e infine finanzia anche radio, siti internet e contenuti on demand.
Il rapporto ha evidenziato come negli ultimi 20 anni l’offerta della BBC sia aumentata esponenzialmente (da due canali a nove, il raddoppio delle radio e l’entrata nei servizi on-line) e che parte della sua offerta abbia carattere prettamente commerciale; il rapporto cita per esempio il format “The Voice” acquistato per circa 20 milioni di sterline e simile al concorrente X-Factor e in contrasto con il format sviluppato internamente di “Strictly Come Dancing”. Il rapporto si è infine chiesto se la parte commerciale della BBC non stia ingiustamente penalizzando i privati e se non sia il caso di “mettere a gara” la parte “pubblica” del servizio.
La BBC, si legge nel report, “come istituzione pubblica non dovrebbe avere gli stessi obiettivi della società commerciali come quello di massimizzare l’audience”. Rimane il problema della concorrenza ai privati con prodotti del tutto simili, “The Voice” per esempio, fatta anche con soldi pubblici in un sistema che rende virtualmente indistinguibile nelle fonti di finanziamento la parte commerciale e la parte di servizio pubblico. Il problema della concorrenza ai privati eccede la televisione classica toccando, per esempio, i siti di notizie e le radio digitali.
La magnitudine del dibattito scatenato dalla presentazione del report è con ogni probabilità dovuta alla pertinenza e ragionevolezza delle questioni sollevate. Chi si è opposto a una “diminuzione della BBC” non ha potuto evitare di riconoscere che le questioni sollevate sono reali e che occorre proporre alcuni correttivi. Il correttivo più gettonato, quello su cui la stampa ha discusso e quello infine a cui sembra voler alludere il governo inglese è quello di rendere il canone volontario. La questione è semplicissima: in una fase di crisi, in uno scenario media ormai molto liquido in cui è impossibile evitare di competere in modo scorretto con i privati, l’obbligo universale di pagamento di un canone per la tv è destinato a diventare sempre più difficile da difendere; quindi meglio porsi per tempo il problema di come non distruggere un patrimonio come la BBC e assicurarle un futuro, se possibile, ancora più radioso, e soprattutto sostenibile, in cui sostanzialmente possa diventare un’impresa in grado di stare sul mercato autonomamente. La soluzione a cui si guarda e a cui, piuttosto chiaramente, guarda anche il governo inglese è quella di un nucleo più piccolo, veramente di “sopravvivenza”, relativo al servizio pubblico, gratuito e finanziato dallo Stato, a cui si affianca un’offerta a cui si accede volontariamente pagando un abbonamento e che quindi deve poter stare sul mercato.
La soluzione o il cambio dell’attuale meccanismo di finanziamento non è questione di giorni e settimane e forse nemmeno di mesi, ma il problema è stato posto in modo chiarissimo e con argomenti solidissimi e la prospettiva è già oggi evidente. Le questioni sollevate “contro” l’attuale meccanismo del canone e le domande su cosa sia servizio pubblico e come debba essere finanziato sono quasi perfettamente ribaltabili sulla Rai e sul canone.
Obbligare un pensionato o un operaio a pagare o chi ha deciso di vivere da eremita oppure ancora chi legge e basta o semplicemente chi non guarda mai la Rai non può non essere una “questione” in un contesto di mercato dei contenuti libero e tendenzialmente gratuito, tanto più in una fase di crisi. Evitare di rispondere a certe questioni non può essere una soluzione difendibile nel medio lungo periodo, perché prima o poi qualcuno si chiederà come mai deve essere costretto a non scegliere Sky o Mediaset premium o Netflix (o l’ultima edizione dell’enciclopedia) perché ha il budget bloccato sulla Rai e perché prima o poi uno di questi tre o chi verrà, incluse radio e giornali, alzerà una mano e chiederà nelle sedi opportune se per caso la situazione attuale non sia qualcosa di molto simile alla concorrenza sleale.
Meglio mettere la BBC in condizione di sopravvivere per altri 90 anni oggi piuttosto che lasciarla in una posizione oggettivamente scricchiolante, ha pensato evidentemente il governo inglese. Non sembra una questione sollevata da chi vuole distruggere la tv pubblica.