Secondo un report del Fondo monetario internazionale sulle politiche nell’area euro pubblicato ieri, all’Italia serviranno vent’anni perché la disoccupazione scenda ai livelli pre-crisi; la previsione del Fmi è di quelle difficili da ignorare, anche perché ha il merito di rendere evidente anche per chi non si occupa principalmente di finanza ed economia quale sia lo scenario che abbiamo di fronte al di là di numeri e percentuali di previsioni e stime che spesso finiscono in un calderone indefinito.
La sostanza della previsione, volendo ulteriormente parafrasare, è che a questi tassi passerà una generazione prima che si riveda la situazione di metà anni 2000; importa davvero poco se stia parlando del 2035 piuttosto che del 2033 o 2037 e anche un 2025 sinceramente non sarebbe particolarmente esaltante. La previsione del fondo non è, nella sostanza, nemmeno particolarmente “nuova” perché non servivano grandi doti matematiche per accorgersi che per recuperare il Pil perso negli ultimi anni serviva sommare tanti “zero virgola” di incrementi annuali Pil attesi nei prossimi anni.
Il corollario di questa previsione è che vent’anni di crescita economica anemica e di economia strutturalmente debole rendono lo scenario particolarmente vulnerabile a qualsiasi “nuova crisi” o a qualsiasi nuovo motivo di volatilità; è vero che, si spera, crisi come quelle del 2008 avvengono una volta al secolo, ma le recenti débâcle azionarie del mercato cinese o il crollo incredibile dei prezzi delle commodity degli ultimi mesi e settimane, per non parlare delle tensioni geopolitiche, non consegnano uno scenario di estrema tranquillità, uno scenario per intenderci che renda possibile convivere nel medio lungo termine con un’economia strutturalmente debole. In altre parole, la previsione del Fmi non è solo un giudizio sulla situazione attuale; è invece, nemmeno troppo implicitamente, la presa di coscienza che qualsiasi cosa si sia fatta finora non è e non può essere una soluzione, soprattutto per quelli che nei prossimi vent’anni dovranno trovare un lavoro.
Non è difficile leggere una critica alle politiche economiche che finora sono state adottate “dall’Europa” che si sono concentrate sui decimi di punti di deficit o su parametri di rientro del debito su cui nessun altro nel mondo si è concentrato (negli Usa, in Inghilterra piuttosto che in Cina o Giappone) e che, per esempio in Italia, hanno portato a situazioni surreali in cui nemmeno nelle regioni più ricche si trovano somme decisamente modeste, se comparate alle centinaia di miliardi di euro di risparmi e alle decine di miliardi di euro che ogni anno in Italia fluiscono nell’industria del risparmio gestito, per completare infrastrutture attese da decenni.
Sembra evidente, sicuramente per il Fmi, che in Europa manchi un piano di crescita e sviluppo per il medio lungo periodo. La vicenda greca è emblematica; l’Europa lasciava maturare una situazione esplosiva per una fragilissima crescita economica mentre nel resto del mondo si assisteva a un calo del 30% in meno di un mese della borsa cinese e a un crollo dei prezzi delle commodity con pochissimi precedenti di cui non si è quasi sentito parlare prima di ieri. La parola miopia non è sufficiente per descrivere l’approccio europeo-tedesco. La Grecia era un problema economico talmente grande che da due settimane quasi non se ne sente parlare, mentre la borsa cinese ha perso in capitalizzazione multipli della capitalizzazione dell’intera borsa greca; non ci dovrebbero essere più dubbi sulla natura politica della questione.
Il Fondo monetario, a conclusione della revisione delle politiche europee, ha stilato anche una lista di riforme prioritarie che toccherebbero all’Italia. Il primo punto è ovviamente l’aumento dell’efficienza del settore pubblico; il Fmi consiglia una riforma sulla fornitura di servizi pubblici locali e la gestione delle risorse umane nella Pubblica amministrazione per ottenere più produttività; abbiamo appena assistito alla sollevazione della scuola pubblica per l’introduzione di una figura “manageriale” con il fortissimo sospetto che l’opposizione più che sulle modalità di applicazione vertesse sostanzialmente sull’introduzione del principio in quanto tale. Il secondo punto è il miglioramento della giustizia civile: si propone la specializzazione dei tribunali e l’introduzione di indicatori di performance per i tribunali. Non osiamo immaginare cosa potrebbe succedere se qualcuno proponesse anche solo un indicatore. Il terzo punto è il miglioramento della flessibilità del mercato del lavoro: si propone l’introduzione di un sistema di sostentamento universale condizionato alla ricerca di un lavoro e, soprattutto, una maggiore flessibilità dei contratti nazionali con la rimozione dei limiti alla contrattazione del salario di secondo livello. Infine, occorre migliorare la competizione nei mercati dei prodotti e dei servizi: il Fondo propone di affrontare le barriere regolamentari nei settori commerciale e dei trasporti.
L’elenco per l’Italia sembra particolarmente di buon senso e non si leggono proposte sensibili, come per esempio una nuova ondata di privatizzazioni. Soprattutto in tema di efficienza dell’amministrazione pubblica non solo non è stato fatto niente di sostanziale, ma nemmeno si è provato ad affrontare seriamente il problema e tutte le volte le migliori intenzioni si sono scontrate contro un muro. Il prezzo che si paga è quello di vent’anni di disoccupazione sopra la norma: una percentuale che ovviamente è una media tra un settore pubblico dove nessuno ha perso il posto (nemmeno di fronte a casi eclatanti di assenteismo in amministrazioni fallite) e dove si assiste attoniti a incredibili inefficienze e difese di prassi anacronistiche difese a colpi di scioperi chirurgici e un privato che arranca sempre di più sotto il peso di tasse record per mantenere lo status a cui siamo abituati e che diamo per scontato. Speriamo che il Fondo monetario internazionale non smetta di pubblicare i suoi report.