Chi sperava in un’estate tranquilla dopo la temporanea conclusione delle trattative tra Europa e Grecia non ha fatto i conti con la Cina. La decisione del governo di Pechino di svalutare lo yuan, con la maggiore svalutazione giornaliera dal 1994, ha mandato i mercati finanziari globali in fibrillazione; fare un punto della situazione non è semplice, anche perché la decisione del governo cinese arriva dopo un crollo spettacolare dei prezzi delle materie prime con il petrolio che martedì era arrivato vicinissimo ai minimi degli ultimi sei anni e con economie produttrici in seria difficoltà (per esempio, la Russia). Le domande che agitano i mercati trascendono di molto le preoccupazioni per i destini di breve periodo dei titoli del lusso quotati (che esportano in Cina) e riguardano alcune variabili fondamentali.

Innanzitutto è bene ricordare che mentre noi, in Italia e in Europa, rimanevamo concentrati sulle trattative con la Grecia il mercato azionario cinese viveva alcune giornate particolarmente interessanti, mentre le autorità cinesi tentavano, con poco successo, di fermare i ribassi. Le condizioni reali del credito e delle istituzioni finanziarie in Cina così come di quelle dell’economia rimangono avvolte da un alone di mistero e le statistiche ufficiali sono state messe in dubbio da moltissimi osservatori e recentemente anche da primarie banche d’affari.

Il solo fatto che non si riesca a capire chiaramente o con sufficiente precisione quanto sia grave la malattia finanziaria ed economica cinese, oltre agli interrogativi sul processo di riforme e sugli obiettivi di medio-lungo termine della politica cinese, è un elemento di preoccupazione importante acuito dal fatto che, a differenza della Grecia, la Cina è una delle due potenze economiche e politiche globali (insieme agli Stati Uniti). Come sempre per gli investitori non c’è niente di peggio dell’incertezza che impedisce qualsiasi valutazione rischio-rendimento affidabile e che si traduce quasi immancabilmente in una vendita.

La svalutazione dello yuan è stata percepita come una mossa del governo cinese per tentare di rilanciare le esportazioni calate dell’8,3% a luglio. È molto difficile rispondere alle domande che inevitabilmente sorgono dopo questa decisione; è comunque molto utile metterle in fila per capire quale sia la portata della questione.

Il primo gruppo di domande è quello relativo a quanto siano davvero cattive le condizioni economiche della Cina e il secondo, strettamente correlato, è quanto ancora possa andare avanti il governo cinese con le svalutazioni dello yuan. Poi arrivano, strettissimamente correlate, le domande su quale sia la reazione dei paesi concorrenti e, in particolare, se altri paesi (India?, Russia? Singapore, Malesia e altri emergenti asiatici?), decideranno a loro volta di svalutare per recuperare lo svantaggio competitivo appena subito. E infine ci si chiede come reagiranno gli Stati Uniti di fronte al rischio di un rafforzamento eccessivo del dollaro.

La svalutazione dello yuan, così come il precedente crollo di materie prime e commodity, genera deflazione in un mondo dove i debiti non mancano e che in termini reali aumentano. La svalutazione dello yuan interroga anche gli Stati Uniti e la Fed; ieri sia Goldman Sachs che Bank of America hanno concluso che per la Fed è diventato più difficile alzare i tassi; lo yuan svalutato e il dollaro forte non fanno ovviamente bene all’economia americana ed è per questo che negli ultimi due giorni l’euro si è rafforzato contro il dollaro incorporando una politica monetaria americana più espansiva. Uno dei “guru” americani dei mercati come Art Cashin di Ubs l’altro ieri ha sostenuto addirittura la possibilità di un altro Quantitative easing della Fed.

Il problema della bassa o nulla crescita di ampie fasce dell’economia globale ha messo in difficoltà sia i paesi esportatori, sia quelli che producono materie prime. La letteratura sull’economia cinese evidenza le difficoltà di un sistema che non ha ancora prodotto una domanda interna. A sua volta una crisi in Cina colpisce chi esporta, dai produttori di auto tedeschi fino al lusso italiano passando, per esempio, alla sospensione per eccesso di ribasso di una società, Fiat Chrysler, che deve quotare Ferrari che ha il principale mercato in Cina.

Le difficoltà dell’Europa non hanno aiutato perché il calo delle esportazioni cinesi ha tra le principali cause proprio la crisi europea. In questo contesto, con il crollo delle materie prime e grossissimi punti interrogativi sulla crescita globale ancora ieri sulla stampa tedesca (Bild) arrivavano “rumours” delle lamentele della Germania per gli insufficienti sforzi greci con richieste di maggiori impegni a un’economia e a un Paese in condizioni economiche tragiche costretto oltretutto a subire l’urto di decine di migliaia di migranti. L’approccio tedesco-europeo è ormai lunare nello scenario attuale e di una miopia folle. L’Italia giustamente contesta questo approccio, ma molto ingiustamente continua a rifiutarsi di affrontare persino le inefficienze e gli sprechi più conclamati con differenze abissali tra i costi di alcune amministrazioni pubbliche e addirittura tra i costi degli stessi beni in differenti regioni e amministrazioni.

È vero che non è mai troppo tardi per iniziare, ma la situazione attuale consiglia un po’ di fretta e soprattutto sconsiglia di trovare le risorse colpendo consumi e imprese che da due giorni a questa parte hanno una competizione cinese più forte; rimane poi incerto cosa succederà a una valuta, l’euro, che negli ultimi mesi si è già svalutata di molto sia contro il dollaro che contro lo yuan (oltre che India, Tailandia, Corea del Sud, Egitto, ecc.) e quanto ancora durerà il dividendo di un euro debole, uno dei tre fattori della super mini-ripresa italiana.