Prima che l’ultima ondata di volatilità colpisse i mercati con i fari di nuovo puntati su Cina e commodity, ci si poteva fermare per notare che il mercato azionario italiano, la borsa di Milano, era il migliore d’Europa nel 2015; il rialzo dal primo gennaio del Ftse Mib è migliore dei corrispettivi tedeschi, francesi, inglesi o spagnoli. È vero che non siamo nemmeno a fine agosto, ma tirare un bilancio di quello che è successo prima della pausa estiva non è senza senso sia perché siamo già a due terzi dell’anno, sia perché il momento in cui si dovrebbe vendere e andare in vacanza (“sell in May and go away”) è già passato da più di due mesi. Questa “vittoria” del mercato italiano ha diverse spiegazioni; molto probabilmente non è la crescita del Pil, dato che la Spagna che cresce a un ritmo di almeno tre volte superiore al nostro ha fatto peggio; le speranze di ripresa che si nutrivano nel 2014 sono state sostanzialmente disattese nel 2015 e se nel primo semestre 2014 ci avessero detto come sarebbe andata a finire, con il Pil in crescita di uno zero virgola nel 2015, avremmo sicuramente pensato a una grande delusione.
Hanno contribuito invece, probabilmente, le politiche espansive della Bce, che hanno per quasi sei mesi, fino al nuovo scoppio della crisi greca, fatto sparire le preoccupazioni sull’Europa periferica e in particolare sul grande malato dell’euro e cioè l’Italia; grande non perché sia il peggiore, anzi, ma perché ha il terzo debito pubblico mondiale e il primo nell’area euro, oltre al fatto che in Europa si è spesso dipinta l’Italia in modo molto peggiore di quanto fosse veramente, come accaduto alla fine del 2011. Il Quantitative easing della Bce in questo senso ha aiutato l’Italia più di tutti gli altri.
Ha contribuito poi, alla vittoria continentale della borsa italiana, la particolarissima natura del principale indice di Milano in cui su 40 titoli ci sono 12 banche e società finanziarie e 6 utilities; un’esposizione assolutamente anomala rispetto ai corrispettivi degli altri paesi e fatta di società particolarmente sensibili alle politiche monetarie della Bce, al ribasso dei tassi e al venir meno delle tensioni sul debito pubblico italiano. La riforma delle popolari e le performance clamorose generate all’inizio dell’anno non hanno poi fatto altro che rendere ancora più acuta la particolarità del listino italiano.
La performance della borsa italiana si è meritata qualche articolo sui principali quotidiani finanziari e ovviamente non è sfuggita nemmeno al Financial Times. Il successo borsistico, però, non si è tradotto in un successo economico; il Pil italiano dovrebbe crescere nel 2015 solo dello 0,6-0,7%, ma soprattutto i dati del mercato del lavoro rimangono tragici con una disoccupazione del 12,7% e una giovanile del 44,2%. I “successi” finanziari devono probabilmente essere messi in un’altra prospettiva. In un articolo del 10 agosto, per esempio, il New York Times si chiedeva cosa ci fosse da celebrare o festeggiare in Spagna, indicata come una storia di successo delle politiche di austerity, quando il tasso di disoccupazione rimaneva al 22%; il quotidiano riempiva l’articolo con una serie abbastanza impressionante di numeri e storie sulle reali, pessime, condizioni economiche di milioni di spagnoli, aggiungendo aneddoti sull’effetto del salario minimo con lavoratori che fingono di lavorare due giorni (prendendo uno stipendio di due giorni), lavorando in realtà tutta la settimana.
Il New York Times si chiede poi se i segnali di ripresa non siano per caso da attribuire ai cali dei costi energetici (il prezzo del petrolio) e come si potranno reimpiegare nel medio lungo termine così tanti disoccupati che invecchiano; il quotidiano si chiede anche quali saranno gli effetti delle norme che rendono più facile licenziare per le imprese e che rischiano di tradursi in licenziamenti di persone di mezza età in favore di lavoratori giovani e part time; persone di mezza età che graveranno sulle casse del governo perché difficilmente reimpiegabili.
La letteratura che è stata prodotta sulla ripresa, sui successi borsistici, sui cali dello spread è un genere letterario che decide di ignorare la realtà di milioni di persone vere. I titoloni sui Pil in crescita dello 0,2%, sullo spread vicino a 100 punti oppure sui successi del Jobs Act eclissano quelli sull’economia vera fotografata dai dati sul mercato del lavoro e si arriva alle vette clamorose di rifiuto della realtà dei tanti che definiscono il “nuovo contratto a tempo indeterminato” una cosa, magari bellissima, che però non ha niente a che vedere con niente che assomigli a “indeterminato”. Dalla ripresa di settembre sarà meglio avere in mente su quali dati si misurano veramente i successi o gli insuccessi economici italiani.