La chiusura dei mercati di ieri ha consegnato un bollettino di guerra con pochissimi superstiti. Una giornata partita con un calo dell’8,5% del mercato cinese è proseguita con un calo del 6% della Borsa italiana e uno del 5% del principale indice azionario europeo. Il petrolio (Brent) bucava i 44 dollari al barile per la prima volta dalla primavera del 2009, il dollaro si indeboliva, dollar index sotto 93, mentre contro l’euro la valuta americana saliva oltre 1,16 (eravamo a 1,10 solo una settimana fa). L’elenco può continuare toccando indici di volatilità (il vix ai livelli più alti da gennaio 2009) o di rischio credito, ma lo scenario dovrebbe essere già abbastanza chiaro; ancora prima che si andasse a esaminare le serie storiche, che confermavano come corrette le prime impressioni, facilmente si arrivava alla conclusione che per ritrovare un’altra giornata così bisognava tornare alle giornate post-Lehman di autunno 2008 e inizio 2009, quasi sette anni e tre Quantitative easing fa.
La Cina è sicuramente il colpevole di turno. I timori sulla crescita cinese e le preoccupazioni sulle reali condizioni della sua economia hanno trovato conferma nella decisione di svalutare lo yuan e poi nella dimostrazione della fragilità del sistema finanziario espressa in una borsa sostanzialmente fuori controllo nonostante i poteri di intervento amplissimi del governo cinese. Trovare il colpevole di turno, fermandosi alla Cina, rischia di essere però un’analisi particolarmente miope e smemorata.
Negli ultimi dodici mesi si è assistito a un crollo spettacolare dei prezzi delle materie prime, petrolio incluso, che ieri ha portato l’indice Bloomberg delle commodity ai minimi dal 1999; un crollo che da un lato sollevava dubbi sulla solidità della crescita globale e che dall’altro colpiva duramente i Paesi produttori tra cui molti importanti “Paesi emergenti” che in teoria avrebbero dovuto essere il motore della crescita globale. Sempre negli ultimi dodici mesi si scopriva che i problemi dell’euro erano tutto tranne che risolti e che la ripresa del 2015 per alcune economie europee chiave, tra cui l’Italia, non era niente di più e di diverso da un errore statistico mentre sul mercato del lavoro non si palesavano neanche gli “zero virgola”. L’economia americana, certamente molto migliore della controparte europea, con un tasso di disoccupazione vicino al 5%, presentava comunque diversi elementi di debolezza, per esempio il tasso di partecipazione al lavoro, e soprattutto la ripresa non aveva guarito molte delle ferite lasciate dalla crisi del 2008.
Per cercare di capire meglio quello che è successo e sta succedendo si possono prendere a prestito due analisi di primarie istituzioni finanziarie. La prima è di Deutsche Bank, secondo cui “la fragilità di un sistema finanziario artificialmente manipolato è stata rivelata negli ultimi giorni”, mentre “se non fosse per un atteso intervento e una politica delle banche centrali straordinaria saremmo molto pessimisti dato che il sistema finanziario globale rimane una costruzione artificiale dipendente dalla generosità delle authority”. La seconda è di SocGen, secondo cui “i mercati hanno chiaramente perso fiducia nella capacità delle politiche monetarie non ortodosse di rilanciare l’economia”. In altre parole, un’ondata pluriennale di interventi espansivi senza precedenti delle maggiori banche centrali ha lasciato il sistema finanziario in condizioni di forte fragilità e non è riuscita a rilanciare la crescita in buona parte dell’economia globale. Il timore di un rialzo della Fed a settembre ha trovato mercati completamente impreparati sollevando gigantesche domande sull’attuabilità di una normalizzazione delle politiche delle banche centrali. Tutto questo trascende sia la “crisi greca” che quella cinese.
A questo punto la domanda è fino a quando o fino a dove la situazione finanziaria debba precipitare prima che le banche centrali, Fed in primis, decidano di “risalvare” i mercati. Inutile dire che le probabilità di un rialzo dei tassi della Fed a settembre sono scese ben al di sotto del 50% dopo che da diversi mesi si sollevavano dubbi su un’eventualità, quella del rialzo dei tassi, che avrebbe avuto conseguenze sia interne, per esempio il rafforzamento eccessivo del dollaro, che esterne con i riflessi sull’economie e i debiti dei Paesi emergenti.
A questo punto però non si può più fermarsi alla domanda su una nuova azione o meno delle banche centrali. Ci sono pochi dubbi sul fatto che, a fronte di quanto sta accadendo, tornerebbero ad agire o che non prenderebbero in considerazione l’ipotesi di alzare i tassi. La vera domanda e la vera questione è che un altro giro sull’ottovolante della liquidità sparata sui mercati non risolverebbe il problema, esattamente come non l’hanno risolto sette anni o quasi di politiche estremamente espansive.
Dire che le politiche espansive delle banche centrali siano necessarie, un ringraziamento particolare a Fed e Banca del Giappone e un bel rimprovero alla lentissima Bce, a fronte di mercati finanziari in caduta libera non significa affatto che siano anche sufficienti. I debiti statali sono più alti di sette anni fa, ma l’economia è peggiore e in alcuni casi molto peggiore. È la stessa SocGen a suggerire quello che, probabilmente, sarà o dovrebbe essere il prossimo strumento per combattere la crisi: “politica fiscale espansiva supportata dalle banche centrali”. È tutto l’opposto dell’austerity che la Germania ha inflitto come medicina al resto d’Europa e soprattutto è uno strumento che potrebbe aprire nuovi scenari di intervento pubblico in economia.
Ovviamente e come sempre si può spendere malissimo o benissimo (e lo stesso vale per le istituzioni finanziarie che giocano sui mercati con i soldi di tutti); nel nostro caso, italiano, ci sono sempre ampissimi margini per spendere meglio e tagliare sprechi per potere cogliere pienamente un’altra eventuale finestra.