Ospitato dalla fondazione “Clinton Global Initiative”, domenica a New York il primo ministro Renzi è stato salutato come il Blair e il Clinton italiano nell’incontro a cui partecipavano anche l’ex presidente americano Bill Clinton e il finanziere Soros. Il paragone era ovviamente un complimento ed è stato molto apprezzato dal Presidente del consiglio, anche se ci sarebbe qualche appiglio per dissentire. All’ex presidente americano vengono attribuite molte responsabilità nell’opera di demolizione delle regole finanziarie che ha poi portato alla crisi del 2008; l’ex primo ministro inglese Blair ha trasformato l’economia inglese puntando fortissimo su finanza e dintorni con un risultato che da noi sarebbe impossibile, e forse nemmeno auspicabile, se non altro perché ottenuto con una serie di vantaggi fiscali per società finanziarie, gestori e i loro bonus che da noi farebbero gridare allo scandalo e che contribuiscono a una disuguaglianza sociale che ancora oggi in Italia ci sembrerebbe lunare.
In ogni caso l’ottimismo su Renzi nella capitale mondiale della finanza sembra alle stelle e infatti una platea di investitori, ospite di Bloomberg, si è ritrovata ieri per ascoltare l’attuale primo ministro italiano. Bloomberg, per la cronaca, a metà agosto titolava un servizio sull’Italia in questo modo: “La luna di miele per Renzi è finita mentre la realtà dell’Italia manda a monte le ambizioni”. All’inizio di settembre invece la stessa testata si lanciava in un panegirico dell’Italia: “È arrivato il tempo di brillare per l’Italia”; si citava a questo proposito quanto avesse “brillato” nel 2015 la performance azionaria di piazza Affari rispetto alle altre borse europee segnalando anche le riforme di Renzi. Bastano due settimane, “in finanza”, per dare per morta o ancora in perfetta salute l’Italia e il suo primo ministro; se abbiamo letto agenzie e giornali bene, questa volta il tour americano di Renzi si presterà abbastanza bene per le analisi più ottimistiche.
La letteratura sulla rinascita dell’Italia se non presente sicuramente prossima ventura complice Renzi e le sue riforme è abbastanza ampia. Per esempio, a fine agosto il Financial Times decideva di dedicare una paginata all’Italia e alla sua borsa regina dell’M&A, delle fusioni e delle acquisizioni; secondo il Financial Times, le riforme di Renzi e prezzi ancora bassi avevano condotto a un’impennata delle operazioni finanziarie sulla piazza di Milano mentre già si intravedevano altre opportunità tra le banche e le utility.
L’entusiasmo della City o della “grande mela” per l’Italia è un entusiasmo interessato che inizia e finisce con i rialzi di borsa possibilmente se successivi agli acquisti; siamo abbastanza convinti che il gestore americano medio che a malapena trova l’Italia sulla cartina europea non abbia il sonno turbato per le preoccupazioni sull’economia italiana o sul numero dei suoi disoccupati. La borsa italiana ha brillato sia perché dopo otto anni di recessione si erano effettivamente create le condizioni per qualche affare mentre le altre borse erano già salite, sia perché in Italia negli ultimi mesi si è venduto di tutto con una libertà d’azione che non ha riscontri in nessuna altra borsa di nessun’altra economia matura e sviluppata.
I premi pagati hanno certamente contribuito alla performance azionaria e soprattutto hanno consolidato l’opinione che a Milano ci siano affari da fare. L’indice principale di Milano, per la cronaca, è fatto di banche, assicurazioni e utility e la principale società industriale, Fca, ha sede a Londra (la milanesissima Pirelli sarà “opata” a breve); questo per dire che la borsa italiana non sembra uno specchio fedelissimo del Paese delle Pmi.
Questa lunghissima premessa è utile per inquadrare che tipo di entusiasmo sia quello degli “investitori” e soprattutto per evitare di farsi confondere da una delle espressioni più fuorvianti delle storia dei commenti economico-finanziari mondiali: “Gli investitori scommettono sull’Italia”. Comprare delle azioni per poi partecipare a una bella opa, magari oliata al punto giusto da una riforma ad hoc, oppure per cavalcare a leva due o tre le politiche delle banche centrali è sicuramente una scommessa in Italia, ma altrettanto certamente non è una scommessa sull’Italia. Per comprare o vendere azioni bastano pochi secondi, per aprire uno stabilimento invece servono regole fiscali certe, una tassazione umana e, magari, un sistema giudiziario e burocratico efficienti e se poi ci si accorge di aver sbagliato non si vende in qualche secondo; per abbassare il tasso di disoccupazione una opa su una banca popolare piuttosto che la vendita di Poste Italiane non servono e le politiche monetarie della Bce o della Fed piovono sempre sia sui buoni che sui cattivi. Gli entusiasmi degli investitori quasi quasi ci preoccupano.