Ieri i mercati hanno vissuto un’altra giornata piuttosto “movimentata”, perfettamente in linea, tra l’altro, con un inizio d’anno che ha già regalato l’emozione del primo giorno di borsa aperta peggiore di sempre. La performance di ieri (Piazza Affari a -3%) è nata in una giornata cominciata con l’ennesimo crollo del petrolio sceso nettamente sotto i 30 dollari al barile (parliamo del Wti) per la prima volta dal 2003. Nemmeno nel dopo crisi Lehman si era arrivati a questi minimi; più precisamente nel 2009, prima di rimbalzare, ci si era fermati a oltre 33 dollari al barile.
Mentre a queste latitudini ancora ci tocca leggere articoli sui risparmi per i consumatori, il resto del mondo si preoccupa per gli effetti di questi cali su tutto il Sud America, su buona parte dell’Africa, sulla Russia e, siamo sicuri di esserci dimenticati, su almeno un altro paio di importanti macro-regioni. Gli effetti del crollo del petrolio sono facilmente rintracciabili nell’andamento delle valute dei Paesi in via di sviluppo che negli ultimi 12-18 mesi si sono dimezzate contro il dollaro e contro l’euro. Si può continuare a parlare di effetti benefici con il petrolio a 60-80 dai massimi di 100, ma quando i cali mettono in crisi nera metà del pianeta e sollevano interrogativi sull’esposizione finanziaria al settore nei paesi sviluppati (a partire dagli Stati Uniti) ci si deve solo preoccupare delle conseguenze negative. Il circolo vizioso che parte dal calo dei prezzi delle materie prime e continua con la svalutazione delle valute dei Paesi produttori si ripercuote inevitabilmente anche a queste latitudini.
Il prezzo del petrolio, e delle altre materie prime, è una delle questioni aperte, ma non è l’unica. La seconda questione è quella relativa all’economia cinese. La Cina è sicuramente in crisi, ma non si capisce fino in fondo quale siano esattamente le dimensioni e le ramificazioni del problema; un’incertezza di questo tipo su un’economia di tale importanza è di per sé rilevante, ma in questo caso si aggiungono le preoccupazioni sulla capacità della Cina di contenere gli effetti, anche finanziari, di una crisi.
C’è infine un’altra questione ed è forse la più “nuova”. Negli ultimi trimestri si è avuta almeno una grande certezza sull’andamento economico americano. La ripresa americana è stata da una parte un punto fermo per i mercati finanziari e dall’altra ha trainato imprese, europee e italiane sicuramente, che in molti casi hanno sfruttato il mercato americano, anche via rafforzamento del dollaro, per controbilanciare la performance economica deludente di molti altri Paesi. È la storia, per esempio, di quella che sarebbe la prima e più grande azienda manifatturiera italiana e cioè Fiat, vittima di un Brasile irriconoscibile e di un’Italia che dopo sette anni di crisi fa uno zero virgola di Pil.
Ognuna delle questioni che abbiamo considerato sarebbe da sola un problema, ma insieme compongono un quadro che non può non preoccupare. Questa però è solo una lunghissima premessa necessaria per porre la domanda che vorremmo davvero evitare di fare. La domanda è questa: cosa succede se c’è una crisi e se invece della ripresa arriva un altro calo?
La domanda è molto antipatica perché ci sono economie che sono a livelli prossimi o simili a quelli pre-crisi, quelle che sono un po’ sotto e quelle che invece sono incredibilmente sotto. Gli Stati Uniti hanno una disoccupazione del 5% e vengono da cicli espansivi, per esempio quello del settore auto, che sono durati molto di più che in qualsiasi altra fase di ripresa.
Ci sono economie grandi in Europa che invece stanno molto ma molto peggio rispetto al 2007. In Italia si è appena cominciato a parlare di ripresa, ma in altri Paesi la ripresa dura da sei anni e il Pil è cresciuto per davvero; in questo senso la percezione che si ha in Italia della fase economica è completamente fuori fase. In Europa ci sono molti problemi e alcune economie europee hanno ancora moltissimi problemi. Ogni indicatore economico italiano (e vale lo stesso per una buona metà dell’Europa) evidenzia una situazione estremamente più fragile di quella antecedente alla prima crisi.
Le responsabilità dell’Europa a guida tedesca sono grandi e le recenti norme sulle banche sono solo uno dei tanti esempi. L’Italia però ha lo stesso identico impianto amministrativo-burocratico del 2007 con una amministrazione, se possibile ancora più ingessata, in cui il posto pubblico è stato talmente garantito da diventare una specie di vittoria alla lotteria e in cui persino il canone rai è diventato obbligatorio nella bolletta elettrica; immaginiamo che tipo di pressione al controllo dei costi ci sia dopo un intervento di questo tipo… Le nostre riforme sono la vendita di poste, ferrovie e aziende industriali, ma non il taglio dei costi inutili nemmeno di quelli più incredibili (quanto costa la siringa nell’ospedale x o y? Quanti dipendenti hanno il comune x e k?), la contendibilità delle popolari ma non la bad bank, il via libera al cambio di controllo sull’ex monopolista telecom, ma nessun intervento vero per assicurare gli investimenti in banda larga dopo le ormai infinite sparate. C’è sempre la possibilità che si risolva tutto e che Fed o Bce o un recupero del petrolio salvino la situazione, ma questa non può essere l’unica strategia.