Mentre il mercato ieri rimbalzava di oltre il 2%, Fca chiudeva nuovamente in negativo con un calo dello 0,7%; dall’inizio dell’anno Fiat Chrysler è uno dei peggiori titoli del listino venendo sorpassata in questa classifica all’incontrario solamente da qualche banca italiana e da un titolo, Saipem, che sta finalizzando un aumento di capitale iperdiluitivo in un settore massacrato dal calo del petrolio. C’è abbastanza materiale per chiedersi cosa ci sia dietro a una performance così negativa e soprattutto così inferiore a quella del resto del mercato.



L’elenco delle spiegazioni è abbastanza lungo. Sicuramente lo stacco del titolo Ferrari ha fatto venire meno un forte incentivo a mantenere le azioni in portafoglio; diversi investitori avevano scelto di tenere il titolo comunque fino allo stacco di Ferrari per poi tenere le azioni del cavallino e liberarsi del resto. È una spiegazione assolutamente fondata, ma quasi certamente parziale, soprattutto se la sottoperformance continua anche dopo diverse settimane dall’inizio dell’anno.



La seconda possibile spiegazione è che il titolo abbia perso quell’”appeal speculativo” che l’ha accompagnato per molti mesi a partire dall’autunno 2014. Circa 18 mesi fa sia l’amministratore delegato Marchionne che John Elkann avevano cominciato a porre con forza la questione di una possibile fusione. Marchionne aveva sostenuto con forza la tesi di un ulteriore consolidamento come tappa fondamentale per un settore strutturalmente incapace di dare ritorni accettabili ai propri azionisti; un settore oltretutto minacciato da possibili nuovi entranti (Google, Apple, Tesla). Elkann si era detto invece disponibile a farsi diluire per creare un gruppo più grande e solido. I due gruppi a cui il mercato guardava come possibili partner, Volkswagen e General Motors, non sembrano però interessati. Le chance di matrimonio con Volkswagen, già pesantemente scemate dopo l’allontanamento di Piech, si sono probabilmente avvicinate allo zero dopo lo scandalo emissioni. L’ad di General Motors non si è smossa nemmeno dopo aver ricevuto una missiva direttamente da Marchionne e con ogni probabilità ha deciso, sostenuta da alcuni azionisti, di poter fare da sola e di non avere la stesa fretta o gli stessi “problemi” di Fca.



C’è una terza spiegazione, molto più recente, e riguarda i dubbi sulla tenuta del settore auto americano; il problema riguarda Fiat Chrysler molto da vicino dato che il gruppo realizza circa l’80% dell’utile operativo in Nord America.

Tolto l’appeal speculativo e la quotazione di Ferrari, Fiat Chrysler deve affrontare alcune sfide industriali importanti. Sono sempre le stesse, ma è utile ricordarle: un posizionamento geografico che ha alcune aree non coperte (su tutte l’Asia), una presenza debole nel settore premium, l’esposizione a un mercato europeo ipercompetitivo e in strutturale eccesso di capacità. Sono sfide che il gruppo può vincere ma che appaiono comunque impegnative, come suggerisce il rallentamento sul rilancio di Alfa Romeo; è quindi comprensibile che il “mercato” decida di prendersi qualche cautela.

C’è però un’ultimissima questione: abbiamo appena detto che la possibilità di operazioni di fusione sembra essersi chiusa. Se però si cominciasse davvero a prendere in considerazione un rallentamento del mercato americano, magari significativo, in un contesto di generale debolezza economica internazionale, allora qualche investitore potrebbe riconsiderare sotto un’altra luce le ipotesi sui benefici strutturali di un’operazione di consolidamento illustrati da Marchionne e difficilmente accantonabili.

In questa ipotesi, è ovviamente tutta fanta-finanza, è lecito chiedersi se Fiat Chrysler sia la preda o il predatore oppure il soggetto di un’operazione alla “pari”. Tra possedere un titolo che si spera possa essere comprato e uno che invece è parte attiva di un processo di consolidamento c’è ovviamente tutta la differenza del mondo, soprattutto per un operatore finanziario.