Il referendum del 4 dicembre viene presentato come uno spartiacque per il futuro economico e finanziario dell’Italia; la vittoria del no sarebbe sintomo di un Paese che non vuole cambiare e che non vuole procedere sulla via delle riforme con governi in grado di “eseguire” in modo efficiente e rapido. Non ci dovrebbe quindi essere possibilità di scelta e l’alternativa sarebbe il baratro.
Tra quanti non la pensano in questo modo si può annoverare da ieri il Financial Times per il tramite della penna di Tony Barber, secondo cui “le riforme costituzionali proposte farebbero poco per migliorare la qualità del governo, le leggi e la politica”. L’argomento principe di Renzi, secondo l’Ft, è che l’attuale sistema impedisce a un governo ben intenzionato di approvare riforme che modernizzino il Paese. Questo, secondo il quotidiano inglese, viene però contraddetto sia dal fatto che il Parlamento italiano approva più leggi di quelli francesi, inglesi, tedeschi o americani, sia dal fatto che lo stesso Renzi ha approvato riforme molto “pesanti” come quella sul lavoro. “È la natura frammentata dell’Italia che si riflette nei partiti politici”; il “frammentato” inglese si potrebbe intendere come variegato, essendo l’Italia molto complicata rispetto a moltissime altre nazioni.
La conclusione è semplice: “L’Italia non ha bisogno di approvare più leggi più velocemente, ma meno leggi e migliori”; “leggi che siano scritte con cura e attuate e non bloccate dalla Pubblica amministrazione”. Queste considerazioni economico-finanziarie sembrano di assoluto buon senso e oltretutto riflettono una comprensione dei veri problemi invidiabile. A queste considerazioni si associano le preoccupazioni per una contemporanea legge elettorale definita senza mezzi termini “cattiva”.
Nella conclusione dell’articolo, il giornalista si fa portavoce dei “capitali europei” secondo cui Renzi merita un supporto perché un’Italia “senza timone, vulnerabile a una crisi bancaria e all’anti-establishment Movimento cinque stelle sarebbe un problema”; una sconfitta al referendum di Renzi non destabilizzerà necessariamente l’Italia, ma una vittoria “potrebbe svelare la follia di mettere l’obiettivo tattico della sopravvivenza di Renzi davanti alla necessità strategica di una democrazia in salute in Italia”.
Queste frasi di enorme buon senso non possono non far ricordare la cronaca finanziaria recente dell’Italia. I ricordi del 2011 e del 2012 dovrebbero essere ancora freschi. Sotto la pressione dello spread a 500, rientrato poi in pochissimi mesi grazie alla Bce, l’Italia sembrava non avere alcuna scelta, pena l’oblio economico-finanziario, se non quella di un’austerity violenta. Oggi non è rimasto praticamente più nessuno, né in Italia né in Europa, a sostenere l’opportunità di quelle scelte, che anzi hanno posto le premesse per una crisi senza precedenti che ha affondato un sistema bancario che invece aveva retto benissimo alla crisi del 2008.
La vittoria del sì è dipinta come l’unica vera alternativa che eliminerebbe le incertezze che pesano su questi mesi; a nessuno però sfugge, neanche a Londra o sui mercati, cosa rischia l’Italia con un tale assetto costituzionale e una tale legge elettorale alla vigilia di un rallentamento ormai palese dell’economia globale e di una fase politica movimentatissima per l’Europa, in cui tra l’altro continuano i flussi record di migranti verso l’Italia.
Non ci vuole una particolare passione per la fantapolitica per immaginare che, anche in Italia, si affaccino con ottime probabilità di successo movimenti “populisti” di vario ordine e grado, di varia capacità o incapacità, di varia opacità o “antidemocraticità” a cui si consegnerebbe il Paese per cinque anni senza la minima possibilità di correzione; questo senza considerare che quello che serve all’Italia sono appunto poche buone riforme che nel caso vadano anche “contro” la Pubblica amministrazione. Riforme che forse hanno più probabilità di essere partorite se non si deve rincorrere una qualsiasi maggioranza relativa che ha il premio finale del potere semi-assoluto per cinque lunghissimi anni.
Oggi già vediamo i risultati di questa impostazione con i vari bonus o regali pre-elettorali tendenzialmente dati a chi non ne avrebbe bisogno e tendenzialmente a chi è rimasto con il potere contrattuale. Anteporre la governabilità di breve agli obiettivi strategici è la strada che abbiamo seguito finora. I risultati dovrebbero essere davanti a tutti. I più distratti potrebbero consultare i dati sulla disoccupazione e la partecipazione al lavoro.