Chi si aspettava l’apocalisse in borsa dopo l’elezione di Trump ha sbagliato clamorosamente. La borsa non è nemmeno scesa come sarebbe stato prevedibile quando si affaccia sullo scenario un elemento “di rottura” e nuovo che cambia uno scenario consolidato. Lo scenario consolidato è quello che dura da almeno otto anni in cui le banche centrali hanno avuto in mano il pallino dei mercati e soprattutto dell’economia; la finanza è stata salvata e oggi fa le stesse cose che si facevano prima del 2008 nello stesso modo, mentre la forbice tra il primo percento e il resto delle persone si è allargata come mai nella storia anche negli Stati Uniti.

Le immissioni di liquidità sono state la ricetta sempre buona per tranquillizzare i mercati e passare un po’ di liquidità a un’economia esangue in cui la partecipazione al lavoro rimane compressa. Tutti i problemi strutturali sono esattamente dove erano nel 2008 con in più otto anni di crisi e di guerre. Hillary Clinton era espressione di quell’establishment finanziario che negli ultimi anni ha ottenuto tutto quello che ha voluto e che ancora oggi fa soldi a piene mani con i tassi schiacciati, una politica monetaria ultra accomodante, la possibilità di produrre dove non ci sono regole e tutele per vendere nei Paesi del primo mondo senza pagare le tasse. I margini delle società americani sono ai massimi di sempre, ma lo stesso non si può dire dei salari e del numero di occupati.

La cosa più incredibile a cui si è assistito ieri sui mercati non è solo il fatto che non ci sia stato il diluvio universale che ancora la mattina si prospettava, ma il rialzo di tutti i titoli legati al settore infrastrutturale americano che vale come esempio massimo. La pancia del mercato il giorno dopo sembra credere al Trump, che nel discorso inaugurale promette di ricostruire “ponti, strade, tunnel scuole e ospedali” mettendo al lavoro “milioni di americani”. Soprattutto la sensazione è che gli investitori e i trader siano i primi a sapere che le ricette degli ultimi otto anni non sono e non saranno mai la soluzione economica strutturale. Tutti hanno un fratello, uno zio o un amico che ha perso il posto e non l’ha più ritrovato.

Il mercato ha premiato l’esposizione al mercato americano; alla old e “hard” economy su cui girano i posti di lavoro e non le stock option di una sparuta manciata di manager. Tutti quei manager hanno finanziato la candidata che ha perso. Sappiamo che le promesse politiche valgono fino a un certo punto, ma il mercato può crederci perché pensa che siano le promesse giuste. L’euro/dollaro è rimasto invariato rispetto allo shock che veniva prospettato. Il voto dell’America profonda, che è il modo politically correct per dire quella ignorante e razzista che non capisce l’economia, alla fine è stato lo stesso voto di chi sta sul mercato e “capisce l’economia”, e che ha deciso di scommettere sulla crescita vera dell’America.

Tutto questo non può non essere messo nel contesto della vigilia. Anche il giorno dopo qualcuno ha provato a difendere i grandi media e i sondaggisti e qualcuno si è coperto di ridicolo dicendo che l’avevano detto. Delle due l’una; o in America nessun sondaggista sa fare il suo lavoro oppure è stata montata una gigantesca balla per tirare la volata a una parte ben precisa. Quello che colpisce non è che abbia vinto Trump; ogni analista in buona fede non può spiegarsi una differenza così clamorosa tra stime e risultato finale. Il mercato non ha fatto l’errore della Brexit e le grandi case d’affari americane, Goldman in testa, avevano consigliato a bassa voce di stare fuori. La prima reazione di ieri quindi è davvero genuina; è chiaro che le promesse politiche valgono fino a un certo punto, ma è altrettanto chiaro che per il mercato sono “buone” promesse per l’economia americana molto più di quanto si è visto finora.

Dopo i risultati di ieri ci si deve attendere un aumento delle forze centrifughe in Europa e un minore potere di influenza di quelle centripete. Più aumentano i voti anti-establishment, più aumentano le probabilità che alla fine questi voti non si traducano nelle apocalissi finanziarie prospettate dai giornali che contano (quelli che davano la Clinton vincente al 90%), ma magari pongano anche solo le basi per una soluzione dei problemi economici strutturali.

Ieri il membro della Bce Nowotny dichiarava che “non era un buon giorno per l’economia mondiale”; il mercato esattamente come gli elettori americani si è accontentato di dire che potesse essere un buon giorno per l’economia americana. Qualcuno spieghi dove c’era Indesit, Italcementi o la Parmalat che bisogna votare per l’economia mondiale o che i nostri alleati europei vogliono sempre il nostro bene; oppure che questa Europa è il futuro dopo vicende stile Libia o con l’Europa che tratta in un modo Deutsche bank e Commerzbank e in un altro le banche popolari venete, il deficit italiano in un modo e quello francese in un altro. Di fronte a questi cambiamenti per l’Italia diventa ancora più pressante l’urgenza di fare i compiti a casa, con poche riforme buone e condivise, e smetterla con gli espedienti per tirare a campare. Un giorno uno scende da un aereo da Washington con ancora il fuso orario e il giorno dopo c’è un altro presidente americano che fino a due anni fa non faceva neanche politica.

Noi italiani, nel nostro piccolo, vorremmo che finissero le approvazioni dei mercati via spread che hanno sempre un retrogusto amarissimo e vorremmo vedere qualche scommessa sulla rinascita dell’economia italiana; se non piace ai New York Times nostrani pazienza.