I commenti all’articolo pubblicato ieri dal Financial Times sul referendum costituzionale del 4 dicembre sembrano fatti e scritti da chi si è fermato al titolo. Ammettiamo che il titolo, “Il referendum italiano ha le chiavi del futuro dell’euro”, è difficile da ignorare in questi tempi volatili e imprevedibili, ma nell’articolo c’è scritto molto di più. C’è scritto che le cause sottostanti a una possibile uscita dell’Italia dall’euro non hanno “niente a che fare con il referendum stesso”, che la causa principale di questa possibile uscita è che la produttività in Italia dall’introduzione dell’euro è scesa del 5% ed è salita del 10% in Francia e Germania. E cioè che non c’è spazio strutturale per l’Italia in questa Europa. C’è scritto che la seconda causa è il fallimento dell’Europa nel costruire un’adeguata unione economica e bancaria dopo la crisi del 2010-2012, e la scelta di imporre l’austerity. Queste sono le due cause dell’aumento dei populismi in Europa per l’FT.



Si parla anche di Francia, dato che la possibilità una vittoria di Marine le Pen è concreta così come i suoi proclami di uscita dall’euro. Un’uscita di Italia o Francia dall’euro, ovviamente, e non ci vuole l’FT per prevederlo, trascinerebbe con sé tutta l’eurozona. Come si può prevenire questo scenario si chiede l’FT? Per cominciare la Merkel dovrebbe accettare quello che ha rifiutato nel 2012 e adottare una road map verso un’unione fiscale e politica piena. È questo minimamente probabile, si chiede retoricamente l’FT? Se chiediamo alla Merkel se vuole gli eurobond la risposta sarà no. Magari, continua l’FT, la risposta potrebbe cambiare se l’alternativa fosse un’uscita dell’Italia dall’euro con quello che comporta. Ma questo, aggiungiamo noi e poi argomenteremo, è un pio desiderio. In ogni caso l’FT conclude dicendo, con un giro di parole, che lo scenario base oggi è il collasso dell’Europa.



Cerchiamo di capire come si arrivi a questa conclusione e mettiamoci nei panni di un osservatore, diciamo un investitore, che investa i soldi dei suoi clienti da Hong Kong o Manhattan. L’Europa mostra una quantità di contraddizioni mostruose in cui una larghissima parte e alcuni dei suoi membri più importanti non sono strutturalmente in grado di far crescere le loro economie nell’attuale costruzione. Il caso più emblematico, ma non l’unico (c’è anche la Francia), è proprio l’Italia. Un Paese con un glorioso apparato industriale temuto in Germania che oggi non può neanche decidere di salvare le sue banche con i suoi soldi. Queste contraddizioni sono strutturali perché i Paesi forti fanno la guerra a quelli più deboli usando asimmetricamente il bastone delle regole e delle istituzioni europee. Parliamo di banche italiane o del fatto che ieri il ministro delle Finanze tedesco, in questa fase delicatissima, ha invocato una stretta monetaria della Bce. 



Gli esempi sono numerosissimi. O l’Europa cambia o esplode, perché alcuni Paesi sono stremati. Ma l’Europa non cambia nemmeno di fronte a crisi epocali e nemmeno quando interi Paesi, come la Grecia, sono letteralmente alla fame. Anzi, quello a cui si sta assistendo è una lenta e inesorabile opera di preparazione al dopo euro in cui si cerca di rafforzare la propria posizione e danneggiare i possibili concorrenti. L’Italia è il principale concorrente tedesco e non le sta andando molto bene. La Brexit sarebbe una follia se l’Europa fosse unita, ma l’Europa non è unita e per questo finirà; perciò uscire prima è un vantaggio enorme e mette in una posizione negoziale di forza invidiabile.

Parlare del referendum italiano come detonatore dell’euro è proprio per il ragionamento fatto dall’FT errato. Si cerca solo di scaricare il barile e chi meglio del solito italiano inaffidabile? Ma se vincesse il Sì, si vedono già oggi in un orizzonte temporale di sei mesi almeno altri 3 o 4 possibili detonatori. In appena sei mesi.

Torniamo al referendum. Oggi scriviamo di Brexit e di Trump presidente degli Stati Uniti quando dodici mesi fa entrambi gli avvenimenti venivano considerati impossibili. Dodici mesi fa la Brexit era considerata un passaggio formale in cui ci sarebbe stato un plebiscito per il remain e due settimane fa la Clinton doveva vincere al 90%. L’attuale formazione politica italiana che con il suo primo ministro dura da quasi tre anni non è stata in grado di risolvere un solo problema strutturale italiano: Mps e le banche, un flusso di migranti da esodo biblico e un sistema burocratico statale che si comporta come negli anni 70 prescindendo da qualsiasi controllo. I vari consulenti di questo governo, su questo ultimo punto, sono finiti molto male senza aver potuto incidere sulla carne di un sistema che spreca risorse a decine di miliardi. Abbiamo assistito in almeno tre occasioni a ondate di regalie pre-elettorali che hanno solo peggiorato i conti pubblici. C’è una sola cosa che al mercato piace meno dell’austerity, ed è la cattiva spesa pubblica.

Da qui al 2018, senza un cambiamento in Italia e con la possibilità data dal combinato disposto di riforma costituzionale e legge elettorale di prendere il potere assoluto possiamo attenderci solo una continuazione, ma in peggio, di quello a cui abbiamo assistito finora. Ancora più sforzi per non fallire gli appuntamenti elettorali e la stessa incapacità di risolvere i problemi. Se c’è un merito di questo governo è quello di aver saputo far passare riforme pesantissime in mesi: abolizione delle popolari, abolizione del contratto a tempo indeterminato e riforma costituzionale. Il problema non è nella velocità con cui si fanno le cose o in un’opposizione parlamentare che non c’è (“Renzi è l’unico leader”, Berlusconi dixit), ma in quello che si fa. Ma nel nuovo scenario del 2016, quello in cui l’Inghilterra se ne va e l’America elegge Trump, a cui non importa nulla dell’Europa, non c’è spazio per le perdite di tempo, perché i cambiamenti avvengono alla velocità della luce e bisogna farsi trovare pronti per il dopo.

Si sono già persi dodici mesi, con il Paese bloccato per questo referendum con cui l’Italia si è messa da sola il cappio al collo e oggi si rischia di perdere altro tempo. Nel dopo euro conterà avere un sistema Paese a posto e bisogna lavorare molto. Questo governo e questo assetto fatto di bonus ai diciottenni e finte riforme, come quella delle province, non possono essere la soluzione. Letteralmente non c’è tempo.

Bisogna decidere se sono tutti stupidi: inglesi, americani e tedeschi che scommettono sulla fine dell’euro oppure se siamo gli unici che non hanno ancora capito cosa sta succedendo. Lasciarsi alle spalle uno status quo che palesemente non funziona è la premessa per qualsiasi possibilità. Lo hanno pensato gli inglesi andandosene sbattendo la porta e gli americani dando una legnata alla Clinton e all’amministrazione Obama. In Italia si può decidere di fare il contrario, ma daremmo solo l’impressione degli sprovveduti.

Dall’FT di venerdì: “Se Renzi perde il referendum il rischio che Roma cada nelle mani dei barbari diminuirà”. Non l’ha ripreso nessuno, ma è utile per mettere tutto nel contesto giusto. Altrimenti possiamo anche credere che se Trump vince la borsa scende e che la Brexit è la fine dell’Inghilterra e poi spiegarlo alle decine di migliaia di italiani che continuano a lasciare l’Italia per Londra. L’euro per l’FT finirà indipendentemente dall’esito del referendum. Continuare a pensare che il contesto non cambi e si possa fare melina sperando nella Bc tra una sparata elettorale e l’altra, un bonus o una cattiva riforma per raccogliere voti senza mai risolvere un problema, è un suicidio. Se il premio per avere una pessima riforma costituzionale è la prosecuzione di questa stabilità, allora non si può fare altro che vendere l’Italia sui mercati.