Ma chi ha davvero paura della Brexit che non deve esserci neanche quando al referendum vince il “leave”? La Brexit non è solo un “problema” per gli inglesi, che come si sa finiranno dritti nell’apocalisse economico e finanziario (con il piccolo dettaglio che finora nessun dato macroeconomico che conta dica questa cosa); la Brexit, che non fa paura agli inglesi che infatti l’hanno votata, è un pessimo precedente per il resto dell’Europa. Perché se per caso si scoprisse, in un’ipotesi incredibile, che si sta meglio fuori che dentro questa Europa, allora sarebbe davvero la fine, soprattutto per chi in questa Europa ci guadagna sempre e comunque.

Cosa significhi stare dentro è noto a tutti da anni nel bene e nel male, ma cosa significhi uscirne sbattendo la porta non è noto. Oggi abbiamo solo una montagna di ipotesi e supposizioni sul numero di banche che forse lasceranno la city quando verranno firmati i nuovi accordi commerciali e su quanto male staranno gli inglesi quando verranno puniti dall’Europa. Se tra un anno scoprissimo che è vero l’opposto di quanto si dice oggi e magari molto meglio, sarebbe molto difficile spiegare agli altri che conviene rimanere dentro, soprattutto con gli “attriti” tra stati che si vedono oggi fatti di applicazioni delle regole palesemente asimmetriche; è il caso, per esempio, della negazione di qualsiasi tipo di flessibilità per le banche italiane.

Della decisione di ieri della Corte suprema che richiede un voto del Parlamento per l’applicazione della Brexit c’è un altro elemento che ci riguarda da vicino. La risposta della Corte suprema al ricorso del governo inglese e del primo ministro che pensa che “basti” il referendum sarà resa nota tra il 5 e l’8 dicembre. Il caso ha voluto che questa data sia immediatamente successiva a quella del referendum italiano sulla riforma costituzionale che qualcuno ha già fatto coincidere con uno spartiacque per l’Europa; Forbes pubblicava un paio di mesi fa un articolo titolato così: “Il referendum italiano potrebbe portare alla morte dell’euro”. Il significato “europeo” del referendum italiano dopo ieri è salito decisamente di livello; i primi a prendersi la responsabilità di dire no all’Europa e di romperla togliendo il primo mattoncino non sono più gli inglesi che hanno tirato in mezzo il parlamento nonostante un referendum partecipatissimo e nemmeno gli austriaci che dovranno rivotare proprio appena dopo il referendum italiano.

Questa “investitura” di responsabilità sul referendum italiano si unisce a un altro filone che ci è stato ricordato sempre ieri. L’ultima agenzia di rating rimasta a dare una tripla “A” all’Italia, Dbrs, ha rinviato la review sul rating sovrano dell’Italia fino a dopo il referendum. Non solo quindi questo referendum deciderà le sorti dell’Europa, ma anche quelle dell’economia italiana. Tutto questo per una consultazione che non solo non sposta di una virgola alcun indicatore economico, ma nemmeno pone le basi per alcun cambiamento nel breve periodo; questo senza considerare quello che aspetta l’Europa nel 2017 con le elezioni in Francia, Germania e Olanda mentre si ripresenta lo stesso modo di fare che ha portato a insofferenze sempre più palesi e decise contro l’Europa.

Aumenta la pressione perché l’Italia prenda quella che deve sembrare l’unica decisione possibile, tanto più se le decisioni respinte dai referendum rientrano da qualche finestra. Sembra quasi l’autunno del 2011, quando l’austerity sembrava l’unica soluzione al mondo e poi è andata com’è andata. Ci si dovrebbe seriamente chiedere cosa mai potrebbe cambiare per l’Europa, visti i precedenti degli ultimi otto anni, con una vittoria del sì; perché se il sì è per un cambiamento non meglio specificato, ma che comunque è un cambiamento rispetto alla situazione presente che non va, lo stesso vale per la Brexit. In questo modo davvero il referendum italiano diventa un referendum sull’Europa, ma non era obbligatorio.