Si è appreso ieri che la Bce non ha concesso altre tre settimane a Montepaschi, rispetto alla scadenza del 31 dicembre, per finalizzare l’aumento di capitale da cinque miliardi di euro. La strada già sembrava molto in salita, per usare un eufemismo, ancora prima delle vittoria del No al referendum. Non si capiva come sarebbe stato possibile trovare la somma necessaria per l’aumento entro il 31 dicembre con in mezzo Natale e feste comandate e con un piano ancora con ancora molti dettagli mancanti. Questo senza considerare che il caso Montepaschi si trascinava da mesi e che era rimasto in sospeso a 20 giorni dalla scadenza prima di un voto su cui il governo aveva deciso di far dipendere la propria sopravvivenza.
Il piano di salvataggio di Montepaschi e in particolare l’aumento di capitale agita la borsa di Milano da un anno. La nuova normativa europea sul bail-in impedisce un aiuto di Stato che non passi per il sacrificio degli obbligazionisti: una condizione estremamente punitiva per il sistema bancario italiano e che in precedenza non è stata applicata ad altri membri dell’Europa. Cadrebbe infatti per sempre la certezza sui prestiti fatti alle banche italiane, sotto forma di obbligazioni, che il sistema non riesce a garantire e che quindi si pone su un gradino molto più basso rispetto agli altri sistemi Paese. Il sistema bancario di un Paese non è solo la somma delle sue banche, ma un,infrastruttura su cui il Paese, in un certo senso, mette la sua garanzia anche per le strettissime connessioni che si generano tra le banche, uno Stato e le sue imprese con i relativi rischi di contagio. Basta che una banca fallisca per generare una corsa agli sportelli di tutte le altre.
Il bail-in è punitivo per un altro motivo. A rimetterci sarebbero anche gli obbligazionisti retail, piccoli risparmiatori, che hanno sottoscritto un’obbligazione bancaria “fidandosi” del sistema e di una garanzia non scritta ma valida da decenni; non si può chiedere a un piccolo risparmiatore di leggere bilanci che nemmeno gli investitori professionali riescono a leggere come dimostrato dal fallimento di Lehman Brothers. Il sistema, in questo caso quello italiano, ha tutto l’interesse che la relazione tra risparmiatori e investitori globali e le sue banche non vada in cortocircuito. Se nessuno presta soldi alle banche o lo fa a costi più alti a rimetterci sono le imprese e lo Stato italiano.
Per evitare questo occorrerebbe fare un aumento di capitale sul mercato. Trovare investitori che mettano insieme cinque miliardi per l’ennesimo aumento di capitale di una banca che avrebbe ancora in pancia molte sofferenze, che appartiene a un’economia che non cresce in un continente dove le cose non funzionano si è rivelato molto difficile. L’andamento del titolo Montepaschi suggeriva che il mercato avesse moltissimi dubbi sul successo di un aumento di capitale ancora prima della vittoria del No e delle dimissioni di Renzi. D’altronde le discussioni sull’aumento andavano avanti da un anno senza che si fosse arrivati neanche lontanamente vicini a una soluzione credibile e dettagliata; nemmeno di fronte a commissioni enormemente alte.
L’unica soluzione definitiva per il sistema bancario è un aiuto di Stato che spezzi il circolo vizioso della sfiducia “sistemica” sul sistema bancario italiano. Questo non si può fare perché l’Europa non vuole; formalmente è vero che il periodo in cui gli stati potevano salvare le banche si è esaurito senza che l’Italia si muovesse per tempo. Nella sostanza è l’Italia che deve pagare per tutti in un’Europa dove chi può permetterselo viola le regole come crede, Francia e Germania in primis, e che in questo modo condanna la sua terza economia e 60 milioni di persone a tutto vantaggio dei “concorrenti”. Basti pensare che in questi giorni Unicredit è “costretta” a vendere oltre 200 miliardi di euro di risparmio italiano alla francese Amundi con la beffa che per Unicredit sta negoziando un amministratore delegato francese.
L’intervento statale italiano che si ipotizzava ieri in serata potrebbe collocarsi in una sorta di compromesso in cui verrebbero tutelati i piccoli risparmiatori e in cui sacrificio verrebbe limitato agli investitori istituzionali delle obbligazioni subordinate. All’Italia non vorrebbe risparmiata l’onta di non essere riuscita a salvaguardare la fiducia degli investitori sul proprio sistema bancario con tutte le relative, gravi, conseguenze; allo stesso tempo si eviterebbe che il contagio colpisca i piccoli risparmiatori.
Rimarrebbe sul tavolo il problema sistemico italiano che per dimensione e numero di soggetti coinvolte va decisamente oltre il problema contingente di Monte Paschi e che non può non passare da un salvataggio statale. Colpire il sistema bancario italiano non è altro che un modo per affondare il Paese economicamente come, e forse di più, lo spread a 500. Se questo è l’obiettivo dell’Europa diretto o indiretto e mascherato dal “rispetto delle regole” che nessun altro rispetta forse sarebbe il caso di spingere il dibattito su un altro piano. Meglio vivi e fuori dall’euro che morti; in questo secondo caso alla fine l’epilogo è ovviamente lo stesso. Non prendiamo neanche in considerazione l’ipotesi che al posto di salvare il sistema bancario italiano con i soldi italiani lo si faccia con quelli europei e poi si chieda il conto a un debitore impotente.