L’arrivo a Roma di Juncker è stato accompagnato dalla pubblicazione del “Country Report” sull’Italia da parte della Commissione europea. Nel lungo report, poco più di 100 pagine, c’è spazio per un’analisi molto ampia sullo stato di salute dell’economia italiana e, ovviamente, per gli immancabili suggerimenti. La Commissione ha sottolineato come l’alto livello di debito pubblico e la bassa crescita dell’Italia siano una fonte di vulnerabilità per la sua economia e che, data la posizione centrale nell’area euro, l’Italia possa avere conseguenze negative per gli altri stati.
Cento pagine di report non bastano per annacquare il messaggio contenuto in queste due piccole frasi. L’analisi articolatissima e approfonditissima lascia intatto il messaggio che l’Italia sia il malato d’Europa e il suo più grande problema; la crescita modesta e il debito pubblico sono la malattia e il grande problema deriva dal peso che l’Italia e la sua economia hanno all’interno dell’euro. Dovrebbe essere chiaro a tutti, almeno da cinque anni, quanto sia importante l’immagine di cui si gode sui mercati e che questa immagine è un misto di problemi reali e di suggestioni collettive che si creano con il contributo, anche interessato, di tanti soggetti.
L’Italia bastonata senza pietà nelle prime settimane del 2016 è la stessa che nel 2015 metteva a segno la migliore performance azionaria tra le borse europee entusiasmando gli investitori per le potenzialità di crescita inespresse. L’Italia fallita con lo spread a 500 del 2011 è la stessa che qualche mese dopo, con tutti gli indicatori in peggioramento, riusciva a piazzare il proprio debito senza problemi.
Nell’analisi del report si trovano alcune perle su cui vale la pena soffermarsi, ma rimane fortissima l’impressione che si sia messo nero su bianco l’immagine, pessima, dell’Italia del momento. Il problema del sistema bancario europeo non è Deutsche Bank e non è stato il numero impressionante di banche nazionalizzate e di sistemi bancari salvati, quello spagnolo con l’aiuto miliardario italiano, in giro per l’Europa, ma è la solita Italia di Banca Etruria o Monte Paschi. Il problema europeo non sono i dati molto preoccupanti dell’economia francese che ha sforato con costanza ammirabile tutti i target europei di deficit, ma l’Italia per qualche decimo di punto percentuale. Questa immagine vive ovviamente anche di problemi reali e di una sottoperformance italiana rispetto al resto dell’economia europea strutturale. Una sottoperformance che è anche frutto dell’incredibile pigrizia italiana nell’affrontare i propri problemi strutturali o di veri e propri autogoal di immagine come le recenti mance elettorali, i canoni rai in bolletta e le scivolate su spending review e dintorni.
La Commissione europea ha buon gioco nel sottolineare l’esigenza di una riforma della contrattazione collettiva, un sistema fiscale che penalizza la crescita, un settore pubblico costoso e inefficiente, sistema giudiziario incluso, i bassi investimenti in educazione e ricerca e il peso della burocrazia. Non sono indicazioni particolarmente nuove od originali, dato che si presentano puntualmente a ogni pubblicazione di agenzia di rating. Tra le perle, invece, sottolineiamo affermazioni quasi comiche come quella secondo cui in Italia ci sarebbero barriere alla competizione nei settori dei servizi pubblici o dei trasporti che non ci sono nel resto d’Europa. Saremmo il Paese che ha, per esempio, l’ex monopolista pubblico telefonico a maggioranza francese in cui si è ceduto il controllo di Edison e che si confronta con Paesi, come la Francia, che hanno ancora lo Stato azionista dei produttori di auto.
L’immagine dell’Italia non è destinata a cambiare dopo questo report. Si conferma che l’Europa non ci è amica e che spesso invece ci è stata chiaramente nemica, come con la recente crisi bancaria, e che non ha nessun interesse a dare all’Italia quello spazio di manovra necessario per far rilanciare l’economia e per fare le riforme; si conferma che l’Europa non ha nessuna ricetta oltre all’austerity tedesca. Si conferma anche che i problemi strutturali dell’Italia sono veri e che è vera la resistenza del sistema, soprattutto pubblico, a qualsiasi cambiamento che inverta quell’enorme trasferimento di valore da privato a pubblico, a discapito del primo, a cui si è assistito in questi anni mentre si alimentano mostri finanziari privati a cui si sono regalati monopoli pubblici (autostrade, aeroporti, reti di trasporto, telecomunicazioni). In mezzo rimane lo spazio per scorribande estere sulle imprese italiane “buone”, tendenzialmente a prezzi di saldo, a cui abbiamo assistito e a cui continueremo ad assistere.