La borsa di Milano ieri ha vissuto un’altra giornata da dimenticare in calo di oltre il 3%; la performance è stata accompagnata dall’ormai abituale ondata di vendite sulle banche con Carige e Mps in ribasso di quasi il 10%. Anche in Europa le borse hanno sofferto anche se con cali non paragonabili a quello italiano: Parigi -2,47%, Francoforte -1,81%, Londra -2,28%. Mentre la borsa di Milano chiudeva in pesante rosso e quelle europee in rosso e basta anche New York virava nuovamente in negativo. Il livello raggiunto dall’indice principale italiano ieri è il più basso da settembre 2013: non è più possibile scambiare queste giornate di ribassi con qualche cambiamento di umore temporaneo o con qualche presa di profitto. L’ipotesi migliore per spiegare quanto sta succedendo è un cambiamento netto dello scenario di fondo che i mercati hanno mantenuto negli ultimi anni.
Si può dire che i problemi siano sempre gli stessi aggiungendo però alcune importanti osservazioni. Il prezzo del petrolio è meno di un terzo di quello che avevamo nell’autunno del 2014; il crollo del greggio si sta trascinando dietro alcune importanti economie in via di sviluppo, interi comparti, molto “finanziarizzati” delle economie sviluppate, ed è già arrivato a impattare imprese occidentali non esposte direttamente al prezzo del petrolio; pensiamo ai profit warning di alcune aviolinee attribuiti ai cali dei viaggi del personale delle società petrolifere oppure al fatto che per molte imprese di costruzione italiane il Medio Oriente è probabilmente il mercato principale.
C’è una scuola di pensiero secondo cui il crollo del petrolio sia in realtà un enorme trasferimento di ricchezza da Paesi produttori a consumatori; è per esempio la tesi esposta in un report di Bank of America Merrill Lynch qualche giorno fa. È una scuola di pensiero che non tiene conto almeno di due elementi: il primo è che un cambiamento così repentino su una variabile che muove migliaia di miliardi di euro è comunque uno stress fortissimo da digerire; il secondo è che se questo trasferimento di ricchezza, nelle economie sviluppate, non si traduce in consumi e investimenti ma in risparmi si sta in realtà bloccando uno dei pochi meccanismi che ancora garantiva investimenti (la raffineria o la metropolitana in Medio Oriente sono “costruite” da ingegneri europei).
Gli altri due “problemi” sono il calo dell’economia cinese e i timori di rallentamento dell’economia americana dopo un periodo eccezionalmente lungo di espansione aiutato dalle politiche della Fed. Infine, ci sono le solite enormi preoccupazioni legate all’economia europea.
Abbiamo premesso che questi quattro macro-problemi (petrolio/materie prime, Cina, rallentamento di Stati Uniti ed Europa) non sono “nuovi”; il fatto però che le preoccupazioni diventino ogni giorno più difficili da ignorare è sempre una novità. Ieri il prezzo del petrolio è sceso nuovamente sotto i 30 dollari al barile, i dati sull’economia cinese continuano a essere pessimi e quelli sull’economia americana continuano ad accendere spie rosse. Lunedì, per esempio, con la pubblicazione dell’indice sugli investimenti in costruzioni in dicembre negli Stati Uniti si è registrato il maggiore calo dal 2013. L’Europa continua a stupire in negativo impedendo alla terza economia dell’area euro, l’Italia, una soluzione facile al problema dei crediti in sofferenza lasciando aperto un problema che può essere devastante per tutto il sistema bancario e poi per l’economia reale. Sperare nell’intervento delle banche centrali non può più essere una soluzione o la soluzione dopo anni di politiche ultra-espansive.
Rimettere in moto l’economia europea e spingere quella americana richiede un cambiamento che non può essere sostituito dalle banche centrali. Cambiare un paradigma per cui il debito a basso costo non viene usato per investimenti e in cui le società usano la cassa per comprare azioni proprie non è né facile, né immediato, soprattutto se, come nel caso europeo, si inseriscono valutazioni di competizione “cattiva” tra stati e economie. Il Financial Times lunedì dava la notizia di un meeting segreto tra alcuni dei principali gestori globali americani (Jamie Dimon, Warren Buffet, BlackRock, Fidelity, Vanguard e Capital Group) in cui si è messo a tema l’esigenza di cambiare la governance delle società quotate per discutere di come incoraggiare gli investimenti di lungo termine in un mercato di attori focalizzati sui profitti di breve termine.
È una discussione che vale la pena osservare da vicino (anche se il meeting è segreto) e di cui conviene parlare anche in Italia, soprattutto se ancora troppo spesso si confonde per “mercato” solo bassissima speculazione e ci si illude che gli investimenti di medio lungo termine possano essere fatti volentieri da un azionista finanziario o da uno industriale che deve rispondere a un altro governo.