Le ultime novità dal fronte Telecom Italia, riportate da “Repubblica”, danno conto di un incontro avvenuto tre settimane fa tra il primo ministro italiano Renzi, i vertici di Vivendi, Bolloré incluso, e il presidente della Cassa depositi e prestiti, Claudio Costamagna. Secondo le ricostruzioni, Renzi avrebbe ribadito di voler mantenere l’italianità di Telecom Italia anche se avrebbe confermato di essere aperto agli investimenti esteri in Italia. Nessuno ovviamente sa con certezza cosa si siano detti veramente Renzi e Bolloré, ma è significativo che negli ultimi giorni Bolloré abbia aumentato ulteriormente la propria quota portandola appena sotto la soglia d’opa; è difficile ipotizzare che queste limature siano arrivate senza un disco verde del premier dopo qualche giorno dall’incontro. Il via libera di Renzi a Bolloré in questo senso non è una notizia sconvolgente, anche perché l’accumulo di azioni è avvenuto lentamente e inesorabilmente.
La vera “notizia” sarebbe l’accento posto sull’italianità di Telecom Italia. Evidentemente però il concetto di “italianità” è flessibile e non tutti lo intendono allo stesso modo, perché oggi l’azionista di controllo di Telecom è francese e perché il Ceo di Orange parla del destino di Telecom Italia con Vivendi e non con il governo o un imprenditore italiano. Siamo sicuri che molte persone oggi ritengano, con molte ragioni, Telecom Italia francese; per capire cosa farà la società domani non bisogna fare indagini o ricerche a Roma, ma a Parigi dove vivono i suoi “padroni”. Magari “italianità” significa che Renzi ha stoppato, per il momento, le velleità di fusione che Orange, già France Telecom, ha pubblicamente dichiarato senza neanche per sbaglio e per cortesia premurarsi di attribuire un qualche ruolo al governo italiano. “L’italianità” rimane quindi un concetto molto sfumato che forse vale la pena approfondire.
Ci sono due questioni legate alla “italianità” (o alla “francesità”, inglesità, ecc.): la prima è che ogni governo vuole che si investano soldi nel Paese che rimangano nel Paese. Non c’è un singolo cliente italiano che abbia un singolo bip di velocità in più su internet perché Vivendi ha comprato azioni Telecom Italia; i benefici dell’operazione di Vivendi sono finora esclusivamente finanziari per la platea di azionisti Telecom Italia e per Vivendi. L’italianità serve perché si presume che un azionista italiano sia o per volontà o per paura, del suo governo e del sistema, più disposto a investire; investire vuol dire migliorare le infrastrutture o le competenze in loco di un’azienda con le ovvie e chiarissime ricadute in termini di Pil e stipendi. In questo caso l’italianità vuol dire avere una sede con dei manager e dirigenti in Italia e non a Parigi e vuol dire che si investa in Italia in un asset vitale, nel ventunesimo secolo, come la rete. Il governo vuole o dovrebbe volere che in un modo o nell’altro qualcuno continui a investire nella rete e non si limiti invece a staccare dividendi per gli interessi, per fare un esempio a caso, del governo francese principale azionista di Orange o di uno speculatore straniero o italiano.
C’è poi un secondo tema. Alcuni asset sono più uguali degli altri. Oggi Campari ha annunciato un’opa sulla francese Grand Marnier. Sarà magari uno smacco per i francesi e il sistema francese, ma siamo sicuri che sarebbe stato molto diverso se a lanciare l’opa fosse stata Eni e se l’obiettivo fosse stato Total. La quale è funzionale all’indipendenza energetica della Francia. Telecom Italia e la rete sono sicuramente più uguali delle altre società per uno Stato che voglia mantenere il controllo sul proprio destino. L’ipotesi di Orange con un azionista di maggioranza americano, per fare un esempio, è palesemente lunare. Il settore media e quello telecom sono sicuramente più uguali degli altri e non occorre essere finanzieri miliardari per capire perché.
Fatta questa premessa possiamo concludere che il contenuto di italianità di Telecom Italia oggi è ai minimi storici. L’Italia oggi non ha alcuna presa legale o societaria sulla rete telecom e sulla quantità dei suoi investimenti. Non si tratta di nazionalizzare Telecom Italia perché si sarebbe anche potuto immaginare lo spin-off della rete con la quotazione sul mercato, un meccanismo di remunerazione degli investimenti concordati col governo e un limite alla partecipazione del 5% con l’obbligo di rimanere public company. Non crediamo sarebbe stata una soluzione non di mercato. Oggi per mettere un argine alla perdita di italianità si dovrebbe almeno scorporare societariamente la rete possibilmente con una partecipazione diretta dello Stato in una delle sue forme. Il governo francese ha una partecipazione diretta in Orange non per i ritorni finanziari ma per quelli strategici e per assicurare che gli investimenti in Francia continuino e che i soldi dei clienti francesi non si limitino a ingrassare “il mercato”.
Gli accordi raggiunti a parole da Renzi non valgono niente per il sistema italiano che negli ultimi cinque anni ha perso il conto dei suoi primi ministri. Tutto quello che non si traduce in eventi societari e leggi che dicano molto chiaramente che Telecom Italia e/o la rete sono strategiche non conta. Il governo italiano si dovrebbe chiedere come mai Orange o Vivendi vogliano Telecom Italia; sicuramente non è perché sia in un Paese con il Pil che cresce a due cifre e molto probabilmente non è per le sinergie, molto difficili da immaginare, tra una rete che fisicamente sta in Francia e una che fisicamente sta in Italia. Forse è perché gli ingegneri francesi sono meglio di quelli italiani e fanno miracoli ma dubitiamo.
Le sinergie con la tv? È possibile, ma allora perché Vivendi non si è ancora comprata Mediaset? Sempre ammesso che lo Stato italiano voglia accettare un colosso telecom-media in mano a un imprenditore che è stato criticato duramente per la governance sia sul Financial Times che sulla stampa francese. La verità è che certe società in certi settori non hanno prezzo. Apparentemente lo capiscono tutti, investitori inclusi, tranne il governo italiano. Non vogliamo nemmeno immaginare il caso in cui anche il governo italiano lo capisca e decida di fare un’ipoteca sul futuro dell’Italia per un qualche calcolo politico di brevissimo respiro.