La prima fusione tra le ex-popolari, Banco Popolare e Bpm, che occupa menti e cuori di investitori e giornalisti da almeno tre mesi sembra alle battute finali. Purtroppo però le queste coincideranno con un nulla di fatto – a meno di miracoli dell’ultima ora davvero difficili da ipotizzare – in cui ognuno andrà per la sua strada. Eppure per molti mesi questa fusione che avrebbe creato il terzo gruppo bancario italiano aveva ricevuto il tifo caloroso di mercati e investitori, del governo e persino di una parte dei dipendenti dei due gruppi. Si immaginava un’operazione in cui si sarebbero create sinergie ed efficienze in un settore che ne ha estremamente bisogno; il margine di interesse ridotto all’osso via politiche espansive della Bce, il bagaglio pesante di sofferenze dopo otto anni di crisi e infine un mercato fatto di un numero spropositato di sportelli quando per fare un bonifico bastano due click consigliavano e richiedevano un “focus” particolare su redditività ed efficienza. Perché oggi quindi stiamo commentando una sconfitta di una partita giocata in casa con il pubblico vociante? Chi ha rovinato la festa scudetto con un gol al 90’?

La storia racconta di trattative impegnative per definire uno schema di fusione che tutelasse gli investitori con un concambio congruo, le basi sociali fatte di dipendenti giustamente e inevitabilmente preoccupati per il posto di lavoro (chi non lo sarebbe nell’anno di grazia 2016 con la disoccupazione al 10%?) e anche ovviamente di posizioni di potere e rendita. Questo schema complicato che doveva tenere conto delle esigenze di tutti si è tradotto in richieste di breve termine sicuramente un po’ bizantine e magari anche non ottimali che, nella mente di tutti, potevano essere accettate e fatte digerire perché i benefici di lungo termine derivanti dalla fusione eccedevano ampiamente i “minus”.

Le efficienze hanno un peso per gli investitori e il sistema Paese ha interesse a creare una banca forte e abbastanza grande per stare sul mercato, finanziando le imprese, ed evitando operazioni di acquisizione esterne in un settore strategico. La Bce è stata però inflessibile richiedendo subito un aumento di capitale e impuntandosi nel non concedere alcuna deroga nemmeno temporanea a un modello di governance non ottimale. C’erano in teoria ampi margini di manovra per trattare e trovare un compromesso che accontentasse tutti, Bce inclusa, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, soprattutto se si tratta dei soliti italiani. La Bce è un azionista importante del fallimento della fusione.

Le resistenze decise della Bce e le trattative estenuanti hanno però dato tempo e forza a chi fin dall’inizio si era limitato agli applausi di facciata e che poi passando le settimane e i mesi ha creduto che non tutto fosse perduto per evitare un’operazione. Ogni fusione comporta perdite di potere e “volatilità” per chi ha, hic et nunc, nella società così com’è una posizione di rendita e forza; oggi i giornali danno conto di “nuovi”, o vecchi?, noccioli duri nell’azionariato di Bpm che potrebbero guidare la banca su una strada di “acquisizioni” future e di molto immediate non fusioni presenti. Le acquisizioni future di banche in crisi sembrano tanto un ripiego rispetto al progetto che avrebbe condotto alla terza banca del Paese. Ma queste sono osservazioni per sentimentali. Il “mercato”, i fondi, non sono interessati a progetti fatti per vuoti concetti da “sistema Paese” o di lungo termine, ma alle performance azionarie. Vogliamo davvero credere che un fondo di private equity o un hedge fund di Londra si vedano come azionisti stabili? Il modo migliore per chiudere un investimento è sempre e comunque e a tutte le latitudini un’opa per cassa. Chi non ha mai veramente apprezzato la fusione è l’azionista di minoranza, ma con una quota superiore al 10%, della mancata fusione.

Ma vorremmo qui “tirare in ballo” un altro “azionista”. Ci avevano detto che la riforma delle popolari, che poi sarebbe la loro scomparsa dato che non sono più popolari, era l’inizio di un percorso che avrebbe condotto al rafforzamento del sistema bancario italiano e alle fusioni. Dopo 12 mesi l’unica fusione di cui si è parlato salta. Possiamo anche sostenere che l’abolizione delle popolari fosse auspicabile, ma oggi la realtà consegna uno scenario in cui un terzo del sistema bancario italiano è allo sbando tra fusioni annunciate e fallite, con gli amministratori delegati impegnati in lunghissime trattative invece che nella gestione della banca. Un terzo del sistema bancario italiano è stato buttato nell’arena senza alcun piano di battaglia; va bene la riforma delle popolari ma così è tafazzismo. In questi dodici mesi non si è vista la conclusione di nessuna operazione di sistema dato che tutti, non popolari incluse, sono nella stessa identica posizione di un anno fa. Anzi in una posizione peggiore visto che nel frattempo siamo passati per la gratificante esperienza di Banca Etruria & Co. Il governo italiano è l’altro azionista di maggioranza.

Chi festeggia? Festeggia chi preferisce sempre e comunque la posizione di rendita presente e pazienza se non si fa mai un passo avanti. Festeggia oggi il mercato che è potuto salire più volte sull’ottovolante delle banche italiane allo sbando aprendo posizioni lunghe prima perché arrivava l’M&A e corte poi perché il sistema rimaneva fragile. Festeggia il mercato domani scommettendo sulle Opa. Quali Opa? Se il sistema bancario italiano e il suo governo non sono in grado di guidare un percorso di fusioni e di rafforzamento del sistema allora ci penseranno le banche estere di turno che hanno sempre i “bilanci” a posto e che a casa loro il “mercato” non hanno mai saputo cosa fosse tra una nazionalizzazione e l’altra.

Festeggia il mercato per altri dodici mesi di rumour su fusioni che fanno benissimo ai titoli quotati ma malissimo alle banche. Il governo nel frattempo, e il sistema, continua a volere un sistema bancario italiano sano, ma evidentemente non può o non vuole fare nulla per ottenerlo.