Ancora durante l’ultimo weekend venivano ipotizzate possibili collaborazioni e partnership tra Vodafone, Wind e Metroweb (che ha il Fondo strategico tra i principali azionisti) per un piano di investimento in fibra ottica; questo accordo, per la cronaca, si sarebbe dovuto concludere entro luglio del 2015 e oggi sono passati quasi due anni dall’inizio delle trattative. Nel frattempo si discute ancora di un possibile intervento di Enel per gli investimenti in rete e anche in questo caso molti mesi sono passati senza che si chiarisse qualche dettaglio pratico; alle dichiarazioni di intenti non è seguito nessun passo sostanziale e nemmeno si è definito un piano di azione minimamente definito.

Settimana scorsa, invece, si è appreso dell’ulteriore rafforzamento di Vivendi in Telecom Italia con l’aumento della quota di un altro 1,4% dal precedente 21,39%, proseguito poi fino ad arrivare al 23,8%; l’obiettivo di Vivendi appare a questo punto arrivare fino alla soglia d’Opa fissata al 25%.

La posizione di Vivendi, ormai da molti mesi, è chiaramente di controllo sostanziale, essendo la società francese di gran lunga l’azionista di maggioranza relativa oltre che l’unico soggetto industriale in teoria interessato al lungo periodo. Il raggiungimento di una quota vicina al 25% dà alla partecipazione di Vivendi una nuova dimensione: chiunque vorrà contendere il controllo sulla società dovrà prima rastrellare sul mercato una quota almeno pari a quella di Vivendi pagando prezzi che a quel punto rifletterebbero legittime aspettative di scontro e che presumibilmente non sarebbero particolarmente convenienti. Poi si aprirebbe una fase complicata e incerta di raccolta deleghe che potrebbe essere definitivamente risolta in senso favorevole con un’Opa. Con i chiari di luna economico-finanziari attuali, le possibilità concrete che Vivendi perda la presa su Telecom Italia sono praticamente nulle. È stato quindi surreale assistere a un silenzio totale sull’ulteriore salita di Vivendi nell’ex monopolista telefonico proprio nella settimana delle proteste del Governo italiano per le intercettazioni a Berlusconi.

Sempre settimana scorsa un report della Commissione europea evidenziava come l’Italia fosse al 27/mo posto su 28 per capacità di connessione a internet. Il sistema attuale non garantisce adeguati investimenti in rete. Ci sono quindi almeno due questioni di cui preoccuparsi. La prima è lo sviluppo di un’infrastruttura strategica per l’economia e la competitività italiana, la seconda è che questa infrastruttura non è completamente indifferente per l’indipendenza italiana in un mondo in cui sui “cavi telefonici” passano tutte le informazioni possibili e immaginabili. Il bassissimo livello di attenzione per le vicende di Telecom Italia e per le implicazioni di medio lungo termine di quanto sta avvenendo è particolarmente preoccupante se si considera il numero di aziende italiane strategiche il cui controllo in questo momento non è particolarmente saldo.

Una grandissima fetta del sistema bancario italiano non ha azionisti di riferimento, non è protetta dalla dimensione e nemmeno da meccanismi che garantiscano la natura di public company; la trasformazione delle popolari in Spa di 12 mesi fa non ha ancora dato vita a una sola fusione, mentre la vigilanza dell’Unione europea sta di fatto mettendo i bastoni tra le ruote con richieste di ulteriori iniezioni di capitale. Non è difficile immaginare che a breve verrà invocato l’intervento di banche straniere per dare più forza patrimoniale a quelle italiane che invece non riescono e che non va bene che si fondano tra loro; i requisiti patrimoniali, ricordiamo, sono anche frutto di convenzioni arbitrarie. Eni si traveste ogni giorno che passa da preda perfetta cedendo tutte le partecipazioni non strategiche che per inciso sono quelle che la legano di più al sistema “Italia”; le cessioni non servono per fare acquisizioni, ma per continuare a pagare gli stessi dividendi al Governo. Anche su autostrade e dintorni si susseguono i rumour di cambi sostanziali negli azionariati di riferimento.

La capacità di presa italiana su asset strategici può essere messa duramente in crisi da scivoloni azionari o di spread che impongano un reperimento di capitali in fretta e furia o che facciano salire l’appetito presentando occasioni di saldo a investitori di lungo periodo portatori di valutazioni strategiche. Protestare per le “ingerenze” americane o per la chiara malafede di alcuni partner europei e poi lasciare in balia “del mercato” o “dell’Europa” tutti gli asset strategici, anche quando il “mercato” come nel caso delle telecomunicazioni non funziona per avere una rete diffusa e decente, è davvero incomprensibile.