Questa mattina alle 9:30 si riunirà un Consiglio dei ministri, ma non ci sarà all’ordine del giorno (salvo sorprese) la questione “bancaria”. Il mercato si aspetta decreti sui rimborsi dei risparmiatori delle 4 banche salvate e sul recupero dei crediti. In loro attesa, ieri è stata archiviata una giornata interlocutoria che arriva dopo diverse sedute di rialzi. Banca Monte Paschi è sopra di circa il 60% rispetto ai minimi di due settimane fa e Banca Carige di circa il 40%; si potrebbe pensare di festeggiare se non fosse che i titoli di cui sopra viaggiano ancora alla metà del valore di inizio gennaio e che la prima e la seconda banca italiana, Unicredit e Intesa Sanpaolo, sono sotto del 35% e del 25% da inizio 2016. Qualunque cosa sia successa, lancio del Fondo Atlante incluso, non sembra aver cancellato definitivamente le perplessità del mercato sul sistema bancario italiano.
Ieri, per esempio, anche la lex column del Financial Times tornava a occuparsi di banche italiane e dintorni “facendosi” questa domanda: “Atlante/Unicredit: Chi salva i salvatori?”. L’articolo prima evidenziava come Unicredit, la prima banca italiana per attivi, aveva dovuto chiedere aiuto al governo per l’aumento di capitale di una banca, la popolare di Vicenza, grande un ventesimo. L’Ft si chiedeva poi come mai Unicredit lunedì fosse scesa del 3%, rispondendo con una generale perplessità del mercato verso il sistema bancario italiano; proseguiva evidenziando la possibilità che una buona parte dei 5 miliardi del Fondo Atlante possa venire usata, da subito, per il solo aumento della Vicenza e quindi riducendo le risorse da dedicare all’acquisto di sofferenze. Infine, la questione delle questioni, sempre per gentile concessione dell’FT: Unicredit che ha i requisiti patrimoniali inferiori alle altre banche maggiori e che è essa stessa “non lontana dall’avere bisogno di più capitale” investe un miliardo in Atlante. Conclusione: il Fondo Atlante potrebbe trasmettere la fragilità dalle banche deboli a quelle forti.
L’FT nota questi elementi essendo in buonissima compagnia, perché è il mercato a farsi queste domande e a porre certe questioni e il Fondo Atlante sicuramente, da solo, non risolve il problema. Se cinque miliardi bastassero per pulire le banche da due crisi, quella del 2008 e quella del 2011, senza precedenti il problema probabilmente sarebbe stato risolto tanti mesi fa. Ieri Banca Popolare di Vicenza scriveva nel comunicato stampa in cui si annunciavano le condizioni dell’offerta che “nel corso delle attività di pre-marketing e di investor education effettuate presso Investitori Istituzionali di elevato standing nazionale ed internazionale sono emerse indicazioni di interesse non sufficienti a consentire la determinazione di uno specifico intervallo di valorizzazione indicativa secondo la normale prassi di mercato”. Questo aumento di capitale non sembra partire nel migliore dei modi.
Il problema bancario, a parte qualche singolo caso dovuto ad acquisizioni “avventurose”, è innanzitutto un problema di crisi economica e di aumento delle sofferenze. L’impatto finanziario della crisi Lehman Brothers ha trovato il sistema bancario italiano molto scarico di finanza creativa e sicuramente molto meno carico di quelli di tutti gli altri maggiori Paesi europei. La crisi del 2011, con l’austerity di Monti, invece è stata una specialità italo-italiana. Quello che è avvenuto dopo è un misto di incapacità, pressapochismo a cui si è unita una chiara ostilità europea nel gioco di competizione tra Paesi membri.
L’Italia prima non ha fatto la bad bank, poi ha dovuto fare i conti con una performance economica deludente che non ha permesso all’economia e alle banche di ripartire in un contesto di tassi a zero (le banche vivono di tassi) e di deflazione. Unico e primo tra i Paesi europei lo Stato italiano ha consentito che migliaia di obbligazionisti di banche, anche quotate, perdessero tutto. L’impatto, dal punto di vista d’immagine, è stato devastante. I risparmiatori italiani hanno imparato che le banche non sono sicure e possono fallire ed è impossibile pretendere, sempre ammesso che si possa, che facciano distinzione sulla base dei requisiti patrimoniali di questa o quella banca. Il risultato è la crisi del sistema che si trasferisce dalla banca più debole a quella meno debole quando i risparmiatori cominciano a ritirare i soldi per metterli nella banca del gradino più alto sulla scala dell’affidabilità. All’esterno si capisce che è il sistema in quanto tale a rischiare l’avvitamento e che questa dinamica non ha fine, e quindi naturalmente si specula, a meno di un intervento deciso e risolutivo, che però è reso molto complicato dalle rigidità interessate europee.
Se l’unica cosa che sappiamo del Fondo Atlante è che non risolve la questione delle sofferenze una volta per tutte, allora la fragilità su cui si basa la speculazione continua a prescindere che sia evidente o lasciata sotto la cenere; è una fragilità pronta a essere tirata fuori tutte le volte che conviene. Una crescita sostanziale darebbe una bella mano, ma non sembra il caso con il Governo impegnato in una campagna elettorale perpetua e un sistema che non sembra particolarmente riformabile. Rimane quindi sul tavolo il problema di come mettere al sicuro e ristrutturare tutto il sistema senza lasciarsi indietro situazioni “complicate”
Il Fondo Atlante è probabilmente un contributo importante, ma non è la soluzione finale; ce lo ricorda l’FT, se mai qualcuno aveva ancora dei dubbi.