Ieri la borsa di Milano non ha vissuto una giornata di “gloria”, con una chiusura da -2% dopo una mezza giornata di passione delle banche nonostante la presentazione del Fondo Atlante; che anche le altre borse europee abbiano chiuse male è una magra consolazione. Non possiamo nemmeno esaltarci per i giri a vuoto della borsa e dell’economia americana. Wall Street ha vissuto una settimana particolare che ha visto, tra l’altro, un mezzo disastro borsistico di una delle sue aziende più rappresentative come Apple. Gli ultimi dati mostrano un’economia americana peggio in salute di quanto si sperasse e con il fiato corto dopo un periodo eccezionalmente lungo di espansione. L’indebolimento del dollaro degli ultimi giorni è una delle conseguenze più naturali. Anche in questo caso non c’è possibile consolazione, perché l’economia americana ha fatto benissimo ai bilanci di tante aziende europee.

Ritornando alla milanesissima e italianissima piazza Affari, nelle ultime settimane si è notato qualche movimento “strano”. Il rendimento del decennale italiano è salito dai minimi di marzo, 1,2%, a oltre 1,5% di metà settimana prima di ritracciare; lo spread Btp-Bund è passato da 100 a 120. Il nervosismo sul sistema bancario italiano, evidente da qualche mese, continua a fare capolino rimanendo chiaramente sullo sfondo. È troppo presto e soprattutto troppo poco per gridare all’allarme rosso o per finire sulle prime pagine dei giornali, ma i rilevatori di “volatilità” si stanno muovendo in una direzione che “non va bene” e che merita qualche riflessione.

Il mercato italiano, dopo tutto, ha perso dall’inizio dell’anno il 15% e dai massimi di agosto oltre il 20%. Al netto del contesto internazionale e delle politiche delle banche centrali, i dati dell’economia italiano sono e rimangano mediocri nella migliore delle ipotesi. Diciamo mediocri, ma sarebbe più corretto dire brutti o bruttissimi. La disoccupazione è sopra il 10%, il Pil è uno zero virgola e il debito pubblico non scende mai. In compenso abbiamo un debito superiore ai duemila miliardi di euro, una situazione politica non esattamente solida o intellegibile e siamo alle prese con flussi migratori “fuori norma”.

La calma finanziaria che abbiamo vissuto negli ultimi 18 mesi è un’anomalia che probabilmente non dovrebbe esistere in natura. Le banche centrali, e in particolare la Bce, hanno avuto un effetto decisivo. Ci sono però altri elementi da prendere in considerazione. L’America ha continuato a tirare, ma soprattutto i “mercati” si sono concentrati su alcuni problemi e zone geografiche particolari. Lo stato di salute dell’economia e delle finanze cinesi è stato un tema; il rallentamento dell’America latina e in particolare del Brasile ha occupato buona parte del 2015. Infine, c’è stato il crollo del prezzo del petrolio con tutte le conseguenze sulle economie di molti Paesi emergenti. Il riflettore dei mercati giustamente si è spostato dall’Europa che, anzi, è stata probabilmente vista come un’oasi tutto sommato affidabile, in seconda battuta dopo gli Stati Uniti. Chi metteva i “soldi” in Europa sapeva tendenzialmente di giocare in un’area con un’economia che aveva smesso di peggiorare, dove si poteva fare affidamento sulla mega-rete di sicurezza di una banca centrale che finalmente sembrava avere un raggio di azione ampio.

Ci sono elementi che fanno credere che questo scenario possa cambiare. Di Cina non parla quasi più nessuno, il recupero delle materie prime è un toccasana per gli emergenti e qualche “opportuno” cambiamento politico, per esempio in Brasile, “rassicura” i mercati. Il riflettore si sposta da queste aree e gli investitori si chiedono costa sta succedendo nel mondo. Nel mondo succede che l’Europa che si era lasciata due anni fa, per fare il giro di cui sopra, è uguale o peggio di prima. La Grecia affronterà a breve un altro appuntamento da vita o morte con l’economia devastata e una mezza invasione di migranti. La Germania se possibile gioca ancora più al massacro confortata dall’aver dimostrato di essere la potenza economica di riferimento avendo fatto fuori diversi competitor tra cui l’Italia, che ora ha una produzione industriale inferiore del 30% rispetto all’inizio della crisi. La Germania tra l’altro si pone in maniera “dialettica” con l’istituzione che più ha contribuito a spegnere l’incendio finanziario nel vecchio continente, la Bce. Infine, l’Europa tra due mesi si troverà alle prese con un possibile cambiamento radicale e perenne dopo il referendum sulla “Brexit”: un evento sicuramente molto traumatico e generatore di volatilità.

I riflettori del mercato quindi potrebbero o si stanno già rigirando sull’Europa. Per l’Italia non è una bella notizia, perché di tutto avrebbe bisogno tranne che di qualcuno che si interessi particolarmente al suo Pil, al suo debito o al suo sistema bancario. Tanto più se questo “interesse” si manifesta nel pieno delle negoziazioni sulla Grecia o nel pieno del referendum inglese. Speriamo che questi “riflettori” rimangano spenti, ma sinceramente non è possibile grande ottimismo. Far ripartire l’economia senza margini sugli investimenti o sulle tasse, senza la volontà o capacità di tagliare gli sprechi e di riformare l’apparato burocratico (sistema giudiziario incluso) è durissima per non dire impossibile; i margini ottenuti sono stati usati per qualche accelerata pre-elettorale o per qualche spinta di breve periodo (come gli incentivi alle assunzioni). I nostri “alleati” ci fanno la guerra in Libia, in Egitto o nelle banche.

Questa è la situazione. Alla vigilia di una probabile riallocazione dei riflettori sull’Europa proprio quando o perché c’è il redde rationem finale ci sarebbe tutto l’interesse a fare il meglio possibile in casa propria e magari a trovarsi qualche amico. Gli “amici” per la cronaca non sono quelli che tirano le bombe dall’altra parte del mare (Francia e Inghilterra per non fare nomi) o che fanno di tutto per ammazzare le banche italiane con i limiti alle obbligazioni statali (la Germania).