Mentre il resto delle borse europee scendeva con moderazione e con cali contenuti, il mercato italiano perdeva per strada un altro 1,3%, dato peggiore in Europa, aggiornando il conto dell’anno a -17%. Trovare il colpevole è ancora una volta facilissimo, con alcune delle maggiori banche italiane che consegnavano performance davvero orribili: Banco popolare a -15% durante la giornata e poi le altre in scie con alterne sfortune. I risultati del Banco popolare sono stati vittima dell’esigenza di adeguarsi alle richieste della Bce in vista della fusione con Bpm; Unicredit continua invece a non dare rassicurazioni sufficienti sull’adeguatezza dei propri requisiti patrimoniali. Alcuni hanno perfino cominciato a dubitare della capacità di Intesa Sanpaolo (che ha i requisiti patrimoniali più che a posto) di tenere fede ai propri impegni sulla distribuzione dei dividendi.
La storia delle banche italiane, però, non può limitarsi al racconto delle ultime trimestrali. È una storia che inizia con una teoria di aumenti di capitale, fatti con il mercato e sul mercato e senza aiuti di stato, che ha riguardato più o meno tutti e che poi ha vissuto l’episodio increscioso, per i mercati e i risparmiatori, di Banca Etruria & Co, con gli obbligazionisti che hanno perso tutti i soldi; una storia che è continuata con Banca Carige e Monte Paschi e che è proseguita con la clamorosa figuraccia dell’aumento di capitale di Banca popolare di Vicenza che prima ha visto sfilarsi la prima banca italiana, Unicredit, che non è riuscita garantire l’aumento e poi finita con Atlante titolare di una partecipazione bulgara. Atlante, già che ci siamo, sarebbe il veicolo partito per comprare le sofferenze dal sistema bancario e che al giorno zero si trova padrone di una banca regionale non piccola e senza un euro di sofferenze comprate.
In tutto questo c’è ovviamente il ruolo dell’Europa, che alle banche italiane non ha accordato la minima flessibilità nonostante gli aiuti di stato avvenuti in altri Paesi e nonostante, o forse proprio per quello, il fatto che la rigidità sulle banche italiane si sia pagata con una piccola grande nevrosi sul sistema bancario della terza economia dell’area euro.
Il sistema bancario italiano sale le classifiche tra gli organi di informazione globale dei motivi di volatilità finanziaria. La storia di un sistema malato, di un problema serio comunque in gioco è molto difficile da riscrivere nella mente del “mercato”; gli episodi che alimentano questa narrazione sono molti e ogni volta il mercato ha un’altra conferma. È difficile risanare le banche con un Pil all’1% quando va bene e il margine di interesse schiantato dalle politiche di immissione di liquidità. Oltretutto, ed è un problema primario, il governo italiano si è dimostrato non in grado di difendere il proprio sistema in Europa e non in grado di fare sistema all’interno e infine di introdurre soluzioni efficaci.
Il disappunto del mercato e della City per il decreto salva-banche è palese e quasi unanime; le grandissime attese alimentate da annunci e da continui rimandi si è tradotto in misure molto modeste. Le riforme che dovevavo favorire lo smaltimento delle sofferenze e che erano incentrate su un diverso, e più snello, procedimento giudiziario sono state molto inferiori alle attese.
Le vicende italiane si incrociano con quelle europee e dei mercati in generale. Oggi, forse, una crisi finanziaria in Italia non la vuole nessuno a un mese dal referendum sulla Brexit e in piena campagna elettorale americana. Questo contesto è utile, ma non cambia la narrazione che si è sviluppata. L’Italia è un malato e la malattia è nell’ultimo posto in cui dovrebbe essere, e cioè nel suo sistema finanziario. Tra la situazione attuale e un peggioramento vero dello spread e del decennale italiano non c’è moltissimo; basterebbe un altro passo falso sulle banche per sconvolgere definitivamente il delicato equilibrio del mercato italiano e aprire una fase di nervosismo vero.
La stabilità del governo è un valore, ma la fiducia nelle capacitá di risolvere problemi di Renzi che il mercato aveva un anno fa è oggi solo un lontano ricordo. Persino chi non vuole il male dell’Italia si sta chiedendo in questo momento se non esista un’alternativa migliore. Il fatto che non se ne veda una all’orizzonte non significa che la questione non venga posta e chiesta. Sulle sorti del sistema bancario italiano non è solo l’Italia a rischiare “il collo”. Continuare a vendere pezzi di stato al punto che persino prendendo un treno pagheremo un dividendo a un fondo inglese come si vede non è una vera soluzione neanche per il mercato; eppure è l’unica amarissima “medicina” che ci viene somministrata. È più facile vendere puri monopoli pubblici come Enav (caso quasi unico al mondo di privatizzazione del controllo dei cieli) e ferrovie garantendo rendite finanziarie certe alla finanza globale con i soldi degli italiani che risolvere problemi veri…
Nessuno però pensi che al mercato sfugga che i debiti e tutti i problemi rimangano. Ma con sempre meno “garanzie” reali.