La Borsa italiana ha vissuto ieri un’altra giornata da dimenticare con una chiusura a -2,46% trainata dall’ennesima debacle del settore bancario. Il conto dall’inizio dell’anno continua a salire con la borsa in calo dal 1 gennaio di quasi il 20%; non c’è neanche la consolazione di essere in buona compagnia perché il resto delle borse europee ha fatto e sta facendo molto meglio di quella di Milano.

C’è abbastanza materiale per chiedersi cosa sia cambiato rispetto a dodici mesi fa. Un anno fa di questi tempi si potevano infatti celebrare i successi della Borsa italiana cresciuta di oltre il 25% in quattro mesi scarsi dall’inizio del 2015 e saldamente al primo posto tra le principali piazze europee. Sulla scia dell’entusiasmo per una performance oggettivamente lusinghiera si sviluppavano due scuole di pensiero. La prima, quella “governativa”, attribuiva i successi della borsa alla rinnovata fiducia accordata dagli investitori al nuovo corso italiano e, in particolare, al processo di riforme inaugurato dal primo ministro. Insomma, l’Italia aveva visto il peggio, il governo era finalmente all’altezza della situazione e le riforme avrebbero rilanciato la crescita. Come sempre il mercato anticipava, muovendosi prima, i futuri successi economici.

Nel frattempo si sviluppava una seconda scuola di pensiero, potremmo dire “realistica”, minoritaria in Italia e quasi di scuola fuori dai confini. Secondo questa scuola di pensiero, i successi borsistici italiani erano attribuibili a tre fattori: l’indebolimento dell’euro (in particolare contro il dollaro), il basso prezzo del petrolio e, last but not least, le politiche espansive della Bce che avevano messo al riparo debito e spread italiani. I tre fattori di cui sopra, euro debole, petrolio basso e Bce, beneficiavano soprattutto l’Italia aiutando le esportazioni, siamo ancora un Paese manifatturiero, la bolletta energetica, non abbiamo petrolio, gas o nucleare, e l’enorme debito pubblico italiano. A distanza di dodici mesi possiamo permetterci il lusso di guardare dietro e far fare la figura degli stupidi, con la forza del senno di poi, ai nostri omologhi di dodici mesi fa.

Le riforme in teoria sono quelle di maggio dell’anno scorso più tutto quanto successo negli ultimi mesi. Dobbiamo decisamente cercare le spiegazioni da un’altra parte. Il dollaro è salito ieri per la prima volta da autunno 2015 sopra 1,15 contro l’euro; in pratica il processo di indebolimento dell’euro si è sicuramente arrestato e, anzi, la valuta americana ha cominciato a indebolirsi. Il petrolio ha vissuto un mini-rally negli ultimi due mesi; secondo praticamente tutti il rally è effimero, “speculativo”, una mezza fiammata insomma, ma intanto siamo a 43 e non più a 25 dollari al barile. Infine, il decennale italiano e lo spread hanno già vissuto qualche giornata “interessante” perché, come si sa, Draghi non sta simpatico a tutti e in particolare sta antipaticissimo alla Germania. Che, tra l’altro, continua a essere sorda a qualsiasi richiesta di ammorbidimento dell’austerity anche di fronte a situazione tragiche come quella greca.

L’Italia non ha mai avuto, nemmeno dodici mesi fa, una vita facilissima; far ripartire un Paese con l’economia ferma da dieci anni, o venti, con un debito di duemila miliardi di euro e una disoccupazione al 10% e rotti senza flessibilità sugli investimenti è molto difficile. Anche dodici mesi fa la situazione era identica, ma il contesto permetteva un “salto di fede” perché lo scenario era favorevole e perché conveniva a tutti crederci, soprattutto se i cattivi di turno erano per una volta gli altri, Brasile/emergenti e Cina. Finita l’era delle scommesse facili, perché il contesto è mutato, i nodi vengono al pettine. Quando la marea si ritira, ricorda Warren Buffet, si scopre chi nuota nudo. Il governo italiano, chiamato a un compito molto difficile, ha dimostrato di non meritarsi la promozione sicuramente in almeno un’occasione, quella forse più importante; oltre a tutte le altre si cui si può legittimante dibattere.

La delusione del mercato, prima allettato da promesse incredibili, per l’ultimo decreto “salva banche” è stata palpabile. Nessuno ha neanche mezzo dubbio sul fatto che si sia trovata una soluzione di medio periodo. Sarà per incapacità, malafede o complessità del problema, ma il risultato non cambia. Si continua a navigare a vista su un settore nevralgico come quello delle banche. Il problema è che nessuno si può fidare fino in fondo della navigazione a vista dell’Italia in materia economica vista la situazione di partenza.

La situazione è complicata; l’Italia non sembra avere molti amici tra “alleati” che giocano al massacro parlando di limiti al possesso di titoli statali per le banche e che ci trattano come i loro competitor manifatturieri da eliminare una volta per sempre, la Germania, e quelli che ci fanno la guerra in Africa sui partner commerciali e le risorse energetiche, Francia e Inghilterra. In questo contesto molto complicato le “riforme” del governo e la sua capacità di risolvere problemi lasciano a desiderare; sicuramente dove oggi il mercato vuole risposte credibili come nel caso delle banche. Quindi la borsa scende.

Bisognerebbe solamente chiedersi quando sia diffusa la coscienza della situazione; l’impressione è che l’urgenza di accantonare le battaglie tra lobby e posizioni di rendita per salvare la baracca non sia molto di moda. Se non ci pensiamo noi a salvarci ci penseranno gli altri, i nostri simpatici alleati di cui sopra, a sistemare il problema “Italia” con la generosità, l’amicizia e la bontà d’animo di cui sono capaci e che hanno ampiamente dimostrato. Con le nuove riforme costituzionali il televoto sull’Italia dovrebbe alla fine essere anche più snello ed efficiente. Il rischio è veramente di diventare un Paese di turismo e cultura…un Paese di camerieri e cuochi.

Che questo sia compatibile con uno standard di vita da primo mondo è tutto da dimostrare. La Grecia ha fatto la fine che ha fatto; tutti gli altri ri-puntano su industria (anche pesante o pesantissima – vedi Tesla), banche, ecc.