Lunedì, Arm, una delle principali società globali del settore dei microprocessori, quotata a Londra, è stata oggetto di un’offerta di acquisto di una società giapponese, Softbank, che ha messo sul piatto oltre il 40% di premio sui prezzi di borsa. La cifra offerta per rilevare la società è di 24,3 miliardi di sterline che al cambio attuale, post Brexit, fa quasi 29 miliardi di euro. La cifra viene offerta per cassa senza alcuna componente in carta. La notizia è finita sulle prime pagine dei maggiori organi di informazione finanziaria. Offerte per cassa da 30 miliardi di euro non si vedono tutti i giorni e giusto per dare un riferimento, le società di queste dimensioni quotate a piazza Affari non arrivano alle dita di due mani.

Su questa operazione ci sono alcuni aspetti che vale la pena sottolineare. Il primo è che Arm occupa una posizione assolutamente strategica in quello che viene chiamato “Internet delle cose”. I microchip di Arm non finiscono “solo” in telefonini e tablet, e già sarebbe abbastanza, ma soprattutto finiscono sempre di più nelle televisioni, negli elettrodomestici, nelle autovetture, nei droni, ecc. L’ambito di applicazione è i tassi di crescita futura sono sterminati e saranno il cuore di moltissimi apparecchi che tra qualche anno finiranno in tutte le case; un numero sempre maggiore di “apparecchi” sarà connesso a internet. Non c’è commentatore che non sottolinei la “strategicità” di questo settore e, soprattutto, di come rischi di essere la prossima rivoluzione tecnologica.

Tra i tripudi di gioia per investitori e per il mercato e per le felicitazione per l’atto di fiducia sulla Gran Bretagna, Paese in cui la società è nata 25 anni fa e si è sviluppata, non sono state molte le voci fuori dal coro. Tra le persone “tristi” per questa acquisizione c’è il fondatore di Arm; per Hermann Hauser, che ha fondato la società, “lunedì è stato un giorno triste per la tecnologia inglese”; per Hauser, Arm “dava alla Gran Bretagna una forza reale” ed era “una società inglese che ha determinato la prossima generazione dei microprocessori che verranno usati nella prossima generazione di telefonini e soprattutto nella prossima generazione dell’internet delle cose”. È difficile azzardare previsioni su come sarà il futuro tra dieci anni, ma se chi “se ne intende” pensa questo e se c’è qualcuno che mette sul piatto 30 miliardi di euro significa che probabilmente le cose stanno in questo modo.

In tutto questo ci sta la finanza, gli analisti e gli investitori che si chiedono se l’acquisizione è stata giusta o sbagliata e, soprattutto, se è avvenuta al prezzo giusto o meno; magari queste valutazioni si concentrano sui prossimi due trimestri o sui prossimi due anni: un arco temporale palesemente sballato rispetto a quello che si dovrebbe considerare. Se nel 2006, prima del lancio dell’iPhone, qualcuno avesse strapagato Apple al doppio del suo valore sarebbe stato giudicato un pazzo per un anno o due e poi sarebbe finito raffigurato in un monumento fatto a proprie spese da clienti, fornitori, indotto, ecc. Parlare di valore finanziario in una fase di politiche monetarie espansive che durano da anni e di rendimenti negativi dei bond decennali è un esercizio “filosofico”.

I soldi, in questo momento, hanno un valore molto relativo per chi prende a prestito 30 miliardi di euro e magari ci paga un tasso di interesse basso come mai si era visto negli ultimi 80 anni; in un mondo in cui le banche centrali stamperanno ancora a tutto spiano. Magari poi l’operazione è “di sistema” e i soldi in un modo o nell’altro arrivano per davvero dal sistema Paese/stato (ChemChina che ha comprato Pirelli non fa parte del sistema Paese/Stato cinese, per esempio?); parlare del costo dei soldi e di benefici o perdite finanziare in questo caso diventa quasi ridicolo. Insomma, non c’è prezzo per poter mettere le mani su una competenza non replicabile e d’avanguardia che dà una supremazia tecnologica; per un “sistema Paese” in una fase economica e geopolitica abbastanza complicata queste considerazioni valgono moltiplicate per venti.

Quando leggiamo di 30 miliardi di euro per cassa messi sul tavolo per una società leader ci vengono in mente le parole del fondatore di Arm, in questo caso, più che le grida di giubilo per un’opa che fa le fortune di un ristretto numero di investitori. Soprattutto ci chiediamo chi faccia l’affare vero, se chi ha venduto o chi ha comprato e nel nostro piccolo, italiano, ci ricordiamo del numero mostruoso di società leader o quasi comprate in Italia per cassa negli ultimi anni. Chi ha perso e chi ha guadagnato?