Mediaset ha chiuso ieri in modo degno una settimana da incubo in calo di oltre l’8%; nella settimana appena conclusa la società ha lasciato in borsa il 17% della propria capitalizzazione. L’inizio di questa debacle borsistica è coinciso con la decisione di Vivendi di sfilarsi dall’accordo dell’8 aprile con cui la società francese prendeva il controllo di Mediaset Premium in cambio di azioni Vivendi. La proposta di Vivendi, rispetto a quella originale dell’8 aprile, cambiava in modo sostanziale; la società francese avrebbe preso solo il 20% di Mediaset Premium e in più proponeva a Mediaset l’emissione di un bond convertibile che alla fine avrebbe condotto la società francese a detenere un altro 15% di Mediaset (oltre al 3,5% del contratto originale).

Il battibecco tra Mediaset, decisamente contrariata, e Vivendi è continuato anche ieri. La società francese, a mercati aperti, diffondeva un comunicato in cui si attribuiva la decisione a un report di giugno di Deloitte secondo cui il piano industriale di Mediaset Premium, che prevedeva il raggiungimento del pareggio nel 2018, era irrealistico. Mediaset replicava nel pomeriggio sostenendo che il piano industriale di Premium era in possesso di Vivendi già da marzo 2016 (prima dell’accordo dell’8 aprile).

In mezzo a questo battibecco ci sono stati i risultati del gruppo di Cologno di giovedì sera, che hanno evidenziato per Premium una perdita operativa di circa 100 milioni di euro nel primo semestre 2016. Anche gli investitori più ottimisti, o forse eccessivamente ingenui, hanno dovuto arrendersi all’evidenza di un’attività, quella di Premium, fortemente in perdita e a cui molto difficilmente si può attribuire un valore significativo se non addirittura positivo. Il mercato reagiva a questa notizia spedendo nuovamente il titolo in purgatorio. La questione appare abbastanza complicata e i comunicati e controcomunicati non aiutano a far chiarezza; oltretutto si sono generate una quantità considerevole di teorie per spiegare questo incredibile mutamento in corsa di Vivendi. In questa confusione ci sono però alcuni punti fermi e alcune supposizioni sicuramente di buon senso e probabili.

Il primo punto fermo è che Mediaset Premium è un’attività che non sta dando risultati economici positivi. La scommessa di Mediaset sui diritti del calcio live non ha spostato gli equilibri nel mercato italiano e infatti Sky non ha perso abbonati; nella situazione economica italiana del 2016 ipotizzare che centinaia di migliaia di consumatori decidano di pagare per due pay tv, oltre al canone rai obbligatorio, è irrealistica. In altri termini, Sky ha un’offerta ancora troppo forte e un avviamento notevole; il fatto che Milan e Inter siano fuori dalla vecchia Coppa campioni non aiuta, ma questa è un’altra storia. Mediaset potrebbe certamente continuare la scommessa, ma per avere successo si dovrebbe continuare a spendere ancora una marea di soldi per il calcio e migliorare l’offerta di contorno; sempre considerato che è abbastanza difficile ipotizzare che possano coesistere, senza perdere soldi, due pay per view in Italia. In pratica Mediaset Premium dovrebbe diventare Sky investendo centinaia di milioni di euro.

Il secondo punto è una supposizione di buon senso. È improbabile che Vivendi si sia accorta dell’”errore” a giugno dopo aver firmato un contratto ad aprile che sicuramente è stato preceduto da analisi. È ancora più difficile ipotizzare che i conti di Premium siano cambiati improvvisamente a maggio o a giugno. L’unica ipotesi di buon senso è che Vivendi vedesse l’accordo in una prospettiva più ampia in cui il contratto dell’8 aprile fosse una parte o un mezzo o una prima puntata e che nel corso di questi mesi la prospettiva più ampia sia venuta meno. Venuta meno la strategia si è preferito evitare di accollarsi un’attività impegnativa industrialmente e finanziariamente come Premium al costo magari di subire qualche penale e magari un danno reputazionale, Quale fosse questa prospettiva ampia di Vivendi è oggetto di ipotesi, ma sappiamo che la galassia Berlusconi è al centro di un ricambio generazionale e che Vivendi è l’azionista di controllo di Telecom Italia; è uno scenario in cui si possono provare a fare tante cose, soprattutto con un governo in difficoltà e un sistema Paese debole.

Anche se non lo dice nessuno ci sarebbe sempre da considerare che Mediaset è il primo operatore televisivo privato italiano e che non può non avere un impatto sulla politica italiana. Non è indifferente chi controlla una televisione e non si può fare finta che Berlusconi, a prescindere da quello che si pensi, non fosse un imprenditore italiano, con interessi in Italia e controllabile/arginabile dal “sistema Italia”. Per dire, un imprenditore cinese o americano, per esempio, si sentirebbe sicuramente meno vincolato; Murdoch per la cronaca è entrato nel mercato americano solo a condizione che prendesse la cittadinanza americana. A riguardo di Vivendi e di Bollorè ci vengono in mente gli articoli del Financial Times e del Wall Street Journalin cui si criticava aspramente la governance dei gruppi guidati dall’imprenditore francese. Il quotidiano americano scriveva addirittura che “avere un ruolo secondario rispetto a Bollorè richiede l’apprezzamento per manovre strategiche opache”.

Nessuno sa quali siano le intenzioni strategiche di Bollorè: noi sappiamo che sono fondamentali per due gruppi di infima importanza per il “sistema Paese” come l’ex monopolista telefonico e il primo gruppo televisivo privato italiano. Se si deve “lasciar fare al mercato” almeno si eviti che quote di controllo oggettivo di società di importanza capitale vengano raggiunte senza pagare premi di maggioranza; sarebbe il minimo. Poi bisognerebbe discutere se sia davvero il caso di lasciare “al mercato” imprese fondamentali per la competitività del Paese o per la sua vita politica. Il mercato, come noto, è un concetto ampio in cui ci sono imprenditori, investitori, raider e speculatori; in mezzo ci sarebbero le imprese.