Dopo Fiat Chrysler, già nota come Fiat, ed Exor, già nota come Ifi, anche la controllante della holding di famiglia Agnelli, “Giovanni Agnelli spa” (azionista di maggioranza di Exor, a sua volta azionista di controllo di Fca), ha deciso di spostare la propria sede in Olanda. La principale società industriale italiana in un certo senso oggi non ha più niente di “italiano” nemmeno risalendo di due livelli la catena di controllo. L’Olanda, come noto, non è un’esotica isola, magari paradiso fiscale, dall’altra parte dell’oceano, ma è parte dell’Unione europea e con l’Italia dovrebbe condividere molti elementi. Eppure ci deve essere qualcosa che giustifichi la briga di spostare la sede di tre società che forse rappresentano l’industria italiana più di ogni altra, per storia, dimensione e per il numero di dipendenti ancora occupati in Italia.
Il primo commento a caldo a fronte di questo esodo è che questa vicenda sarebbe praticamente inconcepibile negli altri principali Paesi europei. È nei fatti praticamente impossibile immaginare lo stesso epilogo per Psa o Renault o per Volkswagen e Mercedes. Accettare che una società con questo valore, anche simbolico, lasci la Francia o la Germania sarebbe impensabile per i rispettivi sistemi Paese che dovrebbero convivere con le conseguenze, anche di immagine, di vedere la propria principale azienda industriale sbarazzarsi del sistema e della sua infrastruttura burocratica e fiscale per un altro. Tentare di convincere un imprenditore ad aprire una sede in loco sarebbe sicuramente un po’ più difficile da spiegare di fronte a obiezioni che si farebbero immediatamente forti di un tale, “cattivo”, esempio. Il problema si pone anche per l’Italia, perché oltre al danno di immagine, con una sorta di voto di sfiducia per il Paese e per le sue regole, c’è quello molto più pratico di evitare un esodo di massa di società dall’Italia all’Olanda, con la perdita presumibilmente di posti di lavoro e di tasse.
L’incapacità del sistema italiano e la capacità di quelli francese, tedesco o americano di tenere entro i confini le imprese nonostante i vantaggi di altri sistemi obbliga a chiedersi quali siano le ragioni di queste migrazioni. La ricerca di minori aliquote fiscali è la ragione più immediata da comprendere, ma non è l’unica. Avere la possibilità di vivere in un ambiente fatto di poche regole chiare, semplici e tendenzialmente stabili e da una burocrazia efficiente è almeno altrettanto importante. I costi di adempimenti burocratici complessi o di un sistema fiscale che pone sfide significative per la sola comprensioni sono concretissimi e in alcuni casi insostenibili; c’è poi la questione della parte del “sistema burocratico” che riguarda l’amministrazione della giustizia. Tempi lunghi o lunghissimi sono un costo enorme per le imprese e in molti casi impediscono nella sostanza il riconoscimento dei propri diritti.
Facciamo un esempio attualissimo. La controversia tra Vivendi e Mediaset sulla mancata cessione di Mediaset premium ha già visto richieste di danni per centinaia di milioni di euro e l’ipotesi che la questione si possa risolvere o “in tribunale” o finirci in qualche modo prima o poi è del tutto possibile. Immaginiamo che Mediaset avesse la possibilità di fare riferimento all’Olanda e al suo sistema burocratico-legale invece che a quello italiano. In questo caso, soprattutto di fronte a una questione così urgente e vitale, la scelta probabilmente sarebbe simile a quella di Fiat/Exor/Giovanni Agnelli. Se una società che fino a qualche anno fa si definiva italiana persino nel nome (Fabbrica Italiana Automobili Torino) si trasferisce in Olanda perché non potrebbe farlo anche Mediaset?
Non sarebbe “elegante” nei confronti del sistema Italia e avrebbe lo stesso pessimo effetto sull’immagine esattamente come nel primo caso; forse, non si capisce perché, farebbe più notizia, ma già ora è il caso di chiedersi come ci si debba comportare di fronte a questa scelte; anche chiedendosi come rendere gli appelli “all’italianità” meno costosi riformando l’ambiente in cui vivono le imprese.