Anche ieri il mercato italiano è stato il peggiore d’Europa e continua a riflettere le incertezze sui piani di salvataggio del sistema bancario e i timori di incertezza politica relativi all’esito del referendum costituzionale. Il problema “politico” italiano così come viene percepito dal mercato non è ovviamente una preoccupazione per le sorti dell’Italia e di chi ci abita, ma per le conseguenze sull’attuale configurazione europea. L’Italia, con la sua economia e il suo debito pubblico, è troppo grande e il suo “fallimento” o la decisione di abbandonare l’euro coinciderebbero con l’immediata fine dell’Europa attuale.



Poco importa cosa sia meglio per l’Italia, quello che conta è che l’Italia non sia un elemento di instabilità e che non cambi una situazione che in questo momento avvantaggia enormemente i nostri partner europei. L’Italia è in questa fase utilissima perché fa dimenticare al mercato i tanti problemi altrui e perché è da anni una riserva inesauribile di affari sia per chi specula sul mercato, sia per chi compra pezzi pregiatissimi di industria e finanza a prezzi da saldo, sia perché applica un’austerity suicida e senza buon senso per tutti. 



L’incertezza sull’Italia e sulla possibilità che decida di lasciare l’euro in modo ordinato abbandonando un’Europa che non permette nessuna politica anticiclica si focalizza sull’esito del referendum costituzionale che si dovrebbe tenere entro la fine dell’anno. La vittoria del No è già stata dipinta come l’anticamera dell’apocalisse finanziaria italiana che seguirebbe immediatamente la caduta di un governo percepito in questo momento come una garanzia per l’establishment europeo; l’Italia e il suo attuale esecutivo non ha né la forza per cambiare la politica europea, che oggi è a tutto vantaggio tedesco, né vuole uscire dall’euro o dall’Europa. La conclusione è che, a parte qualche mini-concessione, tutto rimane come deve rimanere, senza che l’Italia aumenti la volatilità quando non deve e consentendo ai partner di continuarsi a preparare per un’eventualità, la fine di questa Europa con il suo euro, che dopo la Brexit e con la crisi dei migranti sembra ogni giorno che passa più probabile. Il referendum spaventa perché la vittoria del No farebbe cadere un governo in qualche modo garante dello scenario attuale e del posto che è stato assegnato all’Italia.



L’eventualità che una vittoria del No finisca per spalancare le porte di un’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Europa è però remota. È l’opinione di Credit Suisse (riassunta nel grafico a fondo pagina), secondo cui per arrivare a questo esito servirebbero diversi altri eventi molto improbabili. Se vincesse il No, secondo la banca d’affari, e se il governo cadesse si aprirebbero due possibilità: la prima, 70% di probabilità, è che Renzi venga rinominato oppure che venga proclamato premier un’altra figura “dell’establishment”; la seconda, 30%, è che vengano indette nuove elezioni. In questo secondo caso si porrebbe il problema di chi possa uscire vittorioso dalla nuova tornata elettorale.

La probabilità che vinca un’altra volta una formazione pro-establishment sarebbe del 30%, mentre una vittoria del Movimento 5 stelle del 70%. In questo ultimo caso, e siamo già a una possibilità su cinque in caso di vittoria del No, si dovrebbe scommettere che il M5s conquisti la maggioranza assoluta in Parlamento e riesca a indire un referendum per uscire dall’euro, “ipotesi quotata al 10%”; in alternativa, quella più probabile al 90%, il M5s si rassegnerebbe a rimanere nell’euro oppure non avrebbe la forza di portare avanti il progetto.

La conclusione di Credit Suisse è che la probabilità di una Brexit in salsa italiana sia appena dell’1% e che sia bassissima anche in caso di vittoria del No. La quale avrebbe solo il demerito, o il merito, di aprire una possibilità quasi teorica che, però, oggi viene esclusa dall’attuale assetto politico italiano il quale nei fatti è pro-establishment europeo. Questo 1% di possibilità che l’Italia esca dall’euro sarebbe la causa della recente volatilità finanziaria.

Sarebbe interessante capire perché in una costruzione europea palesemente non funzionale, soprattutto nel lungo termine, l’Italia sia ritenuta lo Stato con più interesse a uscire oggi.