Ieri Lorenzo Bini Smaghi è intervenuto sul Corriere della Sera per commentare le recenti previsioni della Commissione europea sul Pil 2017 secondo cui l’Italia avrebbe la crescita più bassa tra tutti gli stati europei. Per Bini Smaghi “l’Italia cresce meno degli altri Paesi europei nonostante abbia la stessa moneta, tragga beneficio della stessa politica monetaria, e abbia beneficiato più di ogni altro Paese dei margini di flessibilità concessi alla politica di bilancio”. L’Italia, quindi, non avrebbe alcun argomento per accusare l’Europa e dovrebbe accusare solo se stessa per questi risultati pessimi non avendo fatto le riforme necessarie. Crediamo che la questione sia ancora una volta mal posta.

Qualcuno intanto dovrebbe spiegare perché la correlazione tra crescita della produzione industriale tra Germania e Italia, per esempio, si sia rotta dopo decenni di andamenti simili proprio con l’introduzione dell’euro. Le conclusioni a cui giunge Bini Smaghi partono dall’assunto non dimostrato che le condizioni in cui l’Europa e l’euro hanno messo l’Italia siano neutrali o indifferenti per la sua crescita economica. Queste condizioni potrebbero essere perfette per la Germania e pessime per l’Italia la cui economia non può essere messa nello stesso insieme di quelle di Grecia e Spagna che non sono mai state concorrenti né della Germania, né della Francia. Bisognerebbe paragonare i destini economici di Paesi simili per dimensioni e per fondamentali economici.

È verissimo che l’Italia non ha fatto tutto quello che poteva fare, ma oggi, rispetto a 20 anni fa, ha un mercato del lavoro mille volte più flessibile di quello francese e tedesco; in Italia non c’è più il contratto a tempo indeterminato e quando un’azienda vuole licenziare non si trova di mezzo il governo come in Francia e in Germania, come dimostra il recentissimo caso Opel. Le riforme del sistema previdenziale hanno mietuto, tra i privati, talmente tante vittime che in altri Paesi europei avremmo assistito a una rivoluzione e oggi chi entra nel mondo del lavoro guarda all’età pensionabile come il momento immediatamente precedente al sonno eterno. Nessuno interviene quando un imprenditore decide di vendere la società all’estero e i diritti di chi ha investito in Italia, per esempio in concessioni, sono rispettati. La macchina burocratica invece è sostanzialmente irriformata così come il sistema giudiziario, la cui inefficienza invece spaventa moltissimo sia gli imprenditori italiani che quelli esteri.

Questo per dire che se è vero che si può fare molto non è vero che non si è fatto niente, soprattutto rispetto a quanto accaduto in Germania e in Francia, dove sono state introdotte le 35 ore, eppure la distanza con l’Italia si è ampliata a dismisura. Ci deve essere qualcosa dell’Europa che non ha messo l’Italia nelle condizioni di crescere come gli altri e che ha rotto dei trend decennali di sostanziale correlazione.

L’austerity cattiva imposta nel 2011 ha reso l’Italia e il suo bilancio molto più fragile. La crisi economica devastante ha più che compensato qualsiasi effetto positivo dell’incremento delle tasse e ammazzando l’economia ha reso i creditori molto più scettici di quanto non lo fossero prima. La rigidità dell’Europa sulle banche italiane ha regalato al nostro Paese un altro anno di crisi nera colpendola proprio nel cuore del suo sistema economico e finanziario e ammazzando la fiducia dei risparmiatori. Quando l’Europa ha dovuto decidere ha scelto sempre per la punizione.

Parliamo di politica industriale: assistiamo attoniti in questi giorni alle resistenze francesi per l’acquisizione di Fincantieri in Francia dopo che i cugini d’Oltralpe negli ultimi dieci anni hanno portato a casa interi comparti industriali italiani, lusso e occhialeria, e hanno messo le mani su pezzi strategici di finanza, banche, assicurazioni oltre che alla prima società media e telecom; in alcuni casi con aziende fortemente legate se non possedute dal suo Governo. Questo mentre la Francia difendeva con soldi pubblici: Alstom, Areva, Psa, ecc. In Italia questa cosa è costata migliaia di posti di lavoro tendenzialmente di alto livello. Pensiamo agli effetti dell’acquisizione di Heidelberg su Italcementi: centinaia di posti di lavoro in meno e una società completamente decapitata. Un’operazione di questo tipo in Francia o in Germania non sarebbe accaduta.

Possiamo almeno dire che all’Italia non è concesso di fare una politica industriale nazionale neanche se volesse. Stesso discorso per la politica internazionale perché in tutte le vicende più importanti degli ultimi anni, dalla Libia alla Russia passando per l’Egitto, l’Europa è stato un intralcio se non completamente nemica dell’Italia e dei suoi interessi mentre altri nella stessa Europa hanno potuto perseguire perfettamente i propri. Le ondate migratorie continuano a mettere sotto pressione l’Italia, mentre la Germania si è tutelata con i soldi europei dell’accordo con la Turchia.

Torniamo all’oggi: l’Italia è palesemente in una spirale economica negativa che non riesce a rompere. Qualsiasi intervento sull’amministrazione pubblica sarebbe necessariamente lento a meno di ipotizzare decine di migliaia di licenziamenti, Anche in questo caso per far ripartire la crescita servirebbe contestualmente una politica espansiva fatta di minori tasse e investimenti pubblici. Per rendere l’operazione politicamente ed economicamente praticabile servirebbe probabilmente prima la politica espansiva e poi i tagli, soprattutto perché il motore è inceppato da molti anni. In questa Europa questo scenario è una chimera sia perché sarebbe scomodo per chi oggi comanda, sia perché sarebbe immediata una posizione scettica sui soliti italiani. L’onere della prova sul fatto che l’euro serva o meno ricade su chi non vuole cambiare l’Europa visto che l’Italia ci perde per una chiarissima asimmetria, perpetuata per anni, e perché in questa Europa l’Italia non ha una chance di ripartire veramente nemmeno se fosse perfettamente virtuosa; certo l’Europa potrebbe, in teoria, cambiare, obbligare la Germania a investire il suo surplus e lasciare che l’Italia faccia investimenti pubblici e politica industriale. Ma questo si scontra con tutta la storia recente e attuale.